giovedì 28 novembre 2013

XIX CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI CINEMATOGRAFICI

“Cinema, Virtualità e Corpo”
a cura di Marco Maria Gazzano, Christian Uva e Vito Zagarrio


Si apre con le immagini polimorfe del Video “Warp” di Steina e Woody Vasulka la XIX edizione del Convegno di Studi Cinematografici di Roma Tre incentrato sul tema del “Corpo” e delle sue molteplici forme di rappresentazione. L’apertura è affidata a Giorgio De Vincenti che, in streaming video, apre con forza sulla necessità di dare la giusta dignità al cinema, spesso raccontato da quelli che definisce i “digiuni della domenica”, ovvero studiosi di altre discipline che si arrogano il diritto di spiegare, codificare ed interpretare superfici complesse come quelle del cinema, un’arte costruita dal nulla e con fatica dagli addetti ai lavori. Raimondo Guardino, citando Gadda, anticipa alcune tematiche del convegno come lo stretto rapporto tra “Immagini, media e dominio” soffermandosi sull’arduo  compito degli intellettuali di “creare” una produzione sociale. Il Vicedirettore del Dipartimento, ricordando Elio Matassi, evidenzia come il Convegno sia nato con l’intento di congiungere la filosofia alla “Comunicazione di uno spettacolo”. Marco Maria Gazzano ricorda il ruolo fondamentale degli artisti nella costruzione di un’idea e della realtà sociale, il Professor Uva prosegue sul rapporto tra “Corpo e Potere”, mentre il Professor Zagarrino chiude l’introduzione ricordando il grande Carlo Lizzani.
È l’etnometodologa Annalisa Tota ad aprire le danze con un toccante intervento sulle tematiche del Corpo nel senso di “Corpo dello Stato”, della sua forma e conseguentemente forma iconica. Mostrando le immagini del Vietnam Veterans Memorial eretto nel 1982 a Washington D.C., ha ricordato come la commemorazione dei morti impressa nel granito sia una basaltica e irremovibile montagna che ricorda la follia della guerra e stende lapidaria un velo sullo sbaglio di quel [e di qualsiasi ndr] conflitto. Anche un gesto, una fotografia possono diventare monumenti o meglio “icone” come nel caso del Cancelliere tedesco e premio nobel per la pace Willy Brandt che si inginocchia per chiedere scusa per “ un peccato” [quello della Shoa ndr], “che nessuno può cancellare”. In Italia valore simbolico altrettanto forte assume, per Annalisa Tota, l’incontro di Giorgio Napolitano con Licia Rognini e Gemma Capra a 39 anni di distanza dalla strage di Piazza Fontana. "E' assurdo che questo incontro non sia avvenuto prima", fa notare la vedova del commissario ucciso in un agguato nel '72, dopo che una campagna di stampa lo rappresentò ingiustamente come responsabile della morte di Pinelli. Considerazione, questa, pienamente condivisa dalla vedova del ferroviere anarchico, ingiustamente sospettato della strage di Piazza Fontana e che morì dopo un volo da una finestra della questura di Milano nel '69.  "Questa giornata è stata un dono di Dio, per chi come me è credente […]” Il presidente Napolitano - conclude Gemma Calabresi - ci ha dato una grande opportunità, e gliene siamo riconoscenti". Oltre alla televisione, anche il cinema contribuisce a questa costruzione del “Corpo dello Stato” attraverso film come “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana o “Diaz” di Daniele Vicari. È con gli eroi civili, però, che tutto prende forza in modo pressante come nel caso delle vittime di mafia. La testimonianza intensa e indimenticabile di Rosaria Costa chiude il cerchio; qui, con i corpi dei defunti è compiutamente creato il Corpo dello Stato.
L’intervento di Enrico Menduni mostra come l’agiografia del potere e la sua critica si intrecciano. Mostrando dei brevi spezzoni dell’arrivo di Hitler a Roma nel 1938 alla stazione Ostiense, dei saluti con Mussolini, la sfilata lungo i fori imperiali, la satira intelligente e immortale de “Il grande dittatore” di Sir Charles Spencer Chaplin, Menduni parla di un processo in cui l’intermedialità è ogni giorno più forte e interconessa. I grandi eventi del passato, se si fossero “manifestati” nell’epoca del World Wide Web, avrebbero generato scie di filmati di cronaca, satira e complottismo mostrando tutto e il contrario di tutto come nell’episodio del 13 dicembre 2009 in cui l’allora premier Silvio Berlusconi venne colpito in volto da un “attentatore” con una statuetta del Duomo di Milano. Giacomo Manzoli parla del corpo dell’uomo, in particolare dell’uomo politico. Ne “La voce di Berlinguer” di Sesti e Teardo, film breve di montaggio dal linguaggio polisemico, Manzoli fa una breve analisi di questo lavoro carico di emozionalità mettendo in luce come l’apparente naturalezza di Berlinguer sia il risultato di una particolare relazione tra voce, immagine, senso del discorso e testo. Abbracciando dimensioni emotive, utopico-oniriche e artistiche il film, distribuito nei circuiti tradizionali, raggiunge l’obbiettivo specifico di enunciare un corpo fisico che assurge a corpo sociale in una rielaborazione storico-sociologica del lutto di un uomo e della sua idea. Il semiologo Paolo Fabbri fa un intervento acuto e brillante prendendo a modello della sua metafora sulla società occidentale, gli “zombies” non solo cinematografici. I non morti, o non vivi, non sono gli altri, ma noi “o voi”. Rimandando ad un’ipotetica e quasi necessaria quarta persona plurale Fabbri  racconta il mondo del riflesso, dell’onirico, citando tra i tanti Kurosawa e le sue armate in “Sogni”; i suoi eserciti che risvegliano antichi e nuovi timori come quello, tutto contemporaneo, delle pandemie auto inflitte in cui i virus contagiano tutti. Virus informatici e non solo; soprattutto “comunicazioni virali” in cui lo spettatore è zombie egli stesso. I morti come “scoria” e non come storia.  Un passato purtroppo spesso dimenticato insieme alla diametralmente opposta e allo stesso tempo conseguente visione del futuro. Maurizia Natali in quelle che definisce tre “iconosfere” affronta il tema del “Corpo delle donne” nella società contemporanea italiana. Partendo dall’analisi di libro del 2009 scritto da Lorella Zanardo, appunto intitolato “Il Corpo delle donne”, la Professoressa Maurizia Natali affronta, senza troppe parafrasi, quella che viene definita l’allegoria della “pornocrazia” italiana. La figura femminile nella televisione italiana degli ultimi 25/30 anni è “disegnata” in modo umiliante e disumanizzante come carne da consumare, tanto da diventare una “donna prosciutto” appesa insieme a corpi di animali macellati in una trasmissione televisiva e non solo; il mondo delle bambole di plastica femminili incarnate in veline, meteorine, presentatrici scollate, ballerine ancheggianti culmina nell’agghiacciante, ma non sorprendente, caso delle “neo lolitine” romane. Viene affrontato il problema del genere sessuale nella società italiana, lungi dall’essere risolto con i suoi ritardi e le sue disuguaglianze; anche il cinema, secondo la Dottoressa, non è avulso a queste tematiche che già, anche se talvolta con obiettivi radicalmente opposti, anticipava in stilemi di “femmine oggetto” come le donne ultra formose di Fellini o certi personaggi spudorati e inquietanti narrati da Pasolini [“Salò o le 120 giornate di Sodoma” ndr].
La Dottoressa Lucilla Albano “prosegue” (le tematiche dei personaggi inquietanti di Pasolini), parlando del “perturbante” ovvero, dell’Unheimlich, cioè una particolare attitudine del sentimento più generico della paura, che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando generica angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità. Lo fa attraverso  una breve, ma attenta analisi della filmografia, soprattutto recente, di Pedro Almodóvar. I personaggi almodovariani sono specchio delle inquietudini del tempo presente; un tempo “egoista” come molti dei rapporti “amorosi” descritti dal regista; in effetti in queste unioni interpersonali manca la relazione e quasi sempre si comunica il “godimento dell’uno”. Quelli raccontati dal regista spagnolo sono rapporti non convenzionali, che mettono in discussione convinzioni e abitudini e lo fanno attraverso la narrazione del sadismo, del masochismo mediante ambientazioni o atmosfere gotiche in cui il corpo è solo una “pelle stretta” in cui vivere per dono o disgrazia divina. Il piacere, l’orgasmo, l’orgasmo supremo, la morte in un indissolubile intreccio tra “Eros e Thanatos” sembrano permeare tutta la più recente filmografia di Almodovar in un sinistro spaesamento che mette a nudo perversioni e debolezze umane senza mai cadere nel trash, in una carezza finale [che tanto ricorda l’immagine del ragazzino che carezza l’impalpabile volto della madre nel sublime e inquietante capolavoro di Bergman “Persona” ndr] che è profondamente dolorosa e sola.
Il professor Carocci, attraverso la figura del corpo della diva Kerima, affronta il tema dell’interculturalità del e nel ruolo “istituzionale” e tutto iconico del cinema americano nel secondo dopoguerra. Un cinema che maschera il suo controllo sociale mediante le storie, spesso inventate, dei suoi interpreti. Mutamenti iconografici tra pre e post-colonialismo, tra gusto e timore per l’esotico, tra accettazione e rifiuto delle “nuove” culture degli immigrati del ‘900. Il cambio di identità, il razzismo, il tema del “perenne straniero” near black che ancora oggi permea il tessuto narrativo di molto cinema di propaganda “mascherata” statunitense. Vito Zagarrio illustra il personaggio di Divine nel cinema di John Waters. Il regista statunitense noto per il suo carattere dissacratorio e provocatorio, critica da sempre la Way of life americana. L’incontro con un coetaneo del suo quartiere, il grassoccio Harris Glenn Milstead che ama travestirsi da donna, sarà il punto di partenza per la nascita di Divine della Dreamland Production che vedrà il suo esordio cinematografico in “Eat your makeup”. La pellicola, che narra il sadismo di un uomo che costringe le modelle a sfilare fino alla morte, è solo il punto di partenza di una collaborazione sicuramente fuori dagli schemi e dai cliché. “Pink Flamingos” del 1972 crea scandalo e clamore (soprattutto per la scena in cui Divine mangia veri escrementi di cane) e dà a Waters la spinta per proseguire. I lavori successivi diventano meno estremi e quindi più “digeribili” dal grande pubblico, ma conservando sempre elementi originali. Innovativa ad esempio l’idea dei biglietti “Odorama” che grattati durante la proiezione del film fanno sentire gli odori di oggetti e secrezioni corporee. Nonostante questo “ammorbidimento” l’opera di Waters e il suo trash meta filmico, restano importanti soprattutto a livello concettuale in quanto si scontrano con la società borghese americana, la sua sessuofobia e il suo finto perbenismo. Prosegue e chiude la giornata la proiezione di “Sangue” di Pippo del Bono, una preghiera cinematografica sulla dissoluzione del corpo sia fisico che dello stato, una dissoluzione fatta di resistenze necessarie e sofferte incarnate dai protagonisti.
Nella seconda giornata si finisce nella “Babel” hollywoodiana e i temi si spostano su quella che viene definita forse un po’ arbitrariamente “nuova narrazione”.Warren Buckland inizia con l’analisi del film “Source Code” in cui l’intreccio tra cinema e mondo video ludico si fa stringente. Le nuove tecnologie digitali influenzano la rappresentazione cinematografica grazie alle peculiarità dei videogames facendo sì che l’estetica, la serialità e gli avatar dei videogiochi permeino il tessuto estetico-narrativo filmico. [la stessa tecnica narrativa è però presente in molti film antecedenti; mi permetto di citare su tutti “Lola Rennt”, film del 1998 di Tom Tykwer. Nel film, diventato simbolo della nuova Deutsch Kino - almeno in patria – mostra caratteristiche proprie dei videogames come la serialità temporale, i “livelli di apprendimento” del protagonista, i “game over” con conseguenti disequilibri narrativi visibili anche nelle trasposizioni animate. Ricordando come la protagonista rimandi alle corse interminabili di Lara Croft nel videogioco del 1996 “Tomb Raider”, ritengo che il film sia stato concepito e presentato forse troppo in anticipo tanto da non essere capito da molti critici come in Italia, in cui Irene Bignardi su “La Repubblica” lo definì sbrigativamente per lo meno “bizzarro e furbo” ndr]
Paolo Bertetto interviene sul concetto di “Fantasmagoria” applicandolo alla merce partendo dai “Passagen-Werk” di Walter Benjamin. L’immagine fantasmagorica nella società si svela nell’istanza di autopresentazione, nella capacità di intercettare il desiderio nella presentazione della merce. Esaltazione e godimento alienato, artificiale e alterato in un mercato del desiderio. Una società capitalistica in cui le luci di Las Vegas sono l’estremizzazione del prodotto di consumo. Un mondo che è “replica” desiderabile esso stesso, seduttore e sedotto nella città fantasma di “Blade Runner” di Ridley Scott, nei piaceri fittizi di Strange Days di Kathryn Bigelow, nel gusto dell’autoinganno della storia artefatta di “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino o ancora nello spettacolare affresco visivo di “Avatar” di James Cameron. Paolo Russo riprende le tematiche della Nuova Narrazione parlando dei Puzzle Film. Nello studio minuzioso ed estremamente tecnicista di “Inception di Christopher Nolan, il ricercatore spiega come il modello Vogler Christoper sia troppo stretto per questa plot line e per quelle dei Puzzle film in generale. Sintetizza 5 livelli narrativi sovrapposti [ma comunque alternati seppur in modo apparentemente informe ndr] in cui sono presenti nuove macrostrutture e numerosi frame work cognitivi con incastri temporali diegetici estranianti [ma in tema con quella che potrebbe essere la nascita di un media franchise con tanti possibili prequel, sequel, spin-off e storie alternative che chiariscano la trama principale, confezionate con cura in futuro ndr]
Leonardo Gandini continua sulle tematiche dei puzzle film paragonandoli ai quadri di Escher. Un inscatolamento anomalo che mette in difficoltà lo spettatore disorientandolo nella comprensione deontologica del testo. Si crea un labirinto narrativo da interpretare con molti “manuali d’uso”. Questo mosaico fa da lancio a Vito Zagarrio che inserisce nel contesto la serie televisiva “Tounch” e il film “Ender’s game” mettendo in risalto elementi comuni come: un protagonista bambino [target “prescelto” a cui destinare il prodotto ndr] il sogno, il mondo dei videogiochi, il mondo virtuale [i nemici ndr], in una narrazione ad incastri [che rimanda agli spin off web come “Daybreak” – “Touch” – rivolto sempre ai giovani internauti ndr]. Il dibattito aperto da Veronica Pravatelli mette in luce come sono numerosi i punti di rimando di questi puzzle film; l’origine va ricercata molto più indetro, nei lavori di Luis Bunuel, Alain Resnais e in molti lavori del dopoguerra che utilizzano tecniche narrative non convenzionali con la presenza di elementi seriali, digressioni temporali, specchi e  “breacking elements”. In fondo, mi permetto di aggiungere, il cinema è arte nuova e “nonostante tutto” un’arte! Per cui rotture del linguaggio, per altro non nuove o isolate, non devono essere necessariamente codificate e diventare esse stesse “seriali”, a volte è proprio il tempo reale, non quello diegetico, a spiegare tutto. Un focus di Giacomo Marramao sul “doppio corpo del potere” e la proiezione di “L’Africa di Pasolini” di Gianni Borgna ed Enrico Menduni con i successivi interventi di Mario Panizza (Rettore dell’Università di Roma Tre), Nicola Borrelli (MiBAC – Direttore Generale per il Cinema), Roberto Cicutto (Amministratore Delegato Istituto Luce – Cinecttà) e Andrea Vianello (Direttore Rai Tre) ci ricordano quanto prestigioso sia diventato questo Convegno giunto alla sua 19ma edizione. L’omaggio a Carlo Lizzani con ospiti il figlio Francesco, Giuliano Montaldo, Giuliana De Sio e varie testimonianze inframezzate dalle proiezioni di “Carlo Lizzani, cineasta multitasking” di Vito Zagarrio, e “La canzone di Carlo” di Paolo Di Nicola chiudono la giornata del 27 novembre.
La trasformazione del corpo fisico diventa essenza della percezione. Thomas Elsaessen scompone il rapporto della percezione “fisica” classica con le trasposizioni cinematografiche visibili in “Avatar” di James Cameron, “Vita di Pi” di Ang Lee e “Gravity” di Alfonso Cuarón in cui il disorientamento spaziale creato mediante l’uso massiccio della grafica creata con l’elaboratore è posizione di base. L’uomo/natura diventa via via uomo/macchina in un rapporto sublimato da un’estetica matematico-kantiana dove la supremazia visiva è dinamica e toglie le “gabbie” riportando la paura per la natura selvaggia [la tigre ndr] in un mistake irrisolvibile tra ragione e abbandono all’immaginazione, tra vita come la conosciamo e “nuovo” essere. John Jost, attraverso una breve, ma significativa digressione nel passato, anatomizza i mutamenti delle forme corporee nella cultura occidentale. Tra evoluzioni e involuzioni cicliche il ricercatore sottolinea come la prospettiva nelle rappresentazioni artistiche sia rimasta invariata dal rinascimento in poi. Oggi, la disponibilità di recenti strumenti e nuovi punti di osservazione dovrebbero portare a mutate rappresentazioni del reale, ma non è così. L’illusione della virtualità non ha cambiato l’atteggiamento umano nei confronti del mondo, l’uomo è ancora  relegato in una caverna platonica espansa nella quale non è filtrato il raggio che ha permesso alla Phronesis di germogliare. Questa artefatta costruzione prettamente estetica del mondo attraverso l’illusione del virtuale offusca la vista; essere uomo “sapius” e non solo sapiens sembra prerogativa solo degli artisti che osservano e raccontano il mondo e il suo, chissà, evitabile declino verso l’autoimplosione. Giulio Latini affronta il tema delle nuove tecnologie e della risoluzione temporale nel cinema tridimensionale. Nuove apparecchiature e tecniche per il videomaking  stanno potenziando il digitale [che ancora subisce la supremazia visuale dell’analogico soprattutto nella resa cromatica ndr] con un consistente aumento dei dettagli spazio temporali, mediante l’accresciuta risoluzione e il quasi triplicato frame rate. Questo è visibile nelle più recenti produzioni cinematografiche come “Gravity” che si avvalgono di accorgimenti sempre più sofisticati che abbracciano anche il mondo sonoro attraverso evoluzioni che porteranno in pochi anni all’olografia totale. [quella sonora è già esistente e funzionante ndr] Riprende e approfondisce il discorso Enrico Carocci che si occupa di “Gravity” analizzandone, attraverso 4 schemi, la trama che il ricercatore reputa sì minimale, ma solida. Prendendo spunto da Jaak Panksepp sottolinea come il 3D rende vivido l’ambiente e stimola l’attivazione di sistemi emotivi primitivi in cui il cervello genera mappe corporee anche in assenza di gravità. La Professoressa Maria Perrota parla del corpo nelle rappresentazioni televisive di reality show come “Extreme Make Over Edition” e “Grassi contro magri”. In questi format si manifesta il potere della metamorfosi, la trasformazione che è rivelazione dello spettacolo. Emerge forte, in questo mondo “mutante” fatto di medici e coach, l’adeguarsi dei protagonisti ai canoni del “bello” contemporaneo. Lo specchio, in cui i protagonisti si guardano al termine della “mutazione”, è il riflesso del trovare se stessi mediante un’evoluzione faticosa dove le secrezioni corporee sono fluidi in ampolle di industrial design ottenute in un laboratorio neoliberista in cui sottomettersi all’idea dell’estetica dominante. Raimondo Guardino introduce il tema dell’immagine eterea e poi è un susseguirsi di riflessioni che spostano l’attenzione sul teatro e la deformazione del corpo come quella in Riccardo III. Il movimento sulle punte di Vaclav Fomič Nižinskij in una danza angolare e carica di sensualità è argomento di Concetta Lo Iacono; Samanta Marenzi si sofferma su “Corpo, spirito e immagine” attraverso il kamaitachi di Eikoh Hosoe e Tastusmi Hijikata; Paolo Ruffini racconta di corpi in transito nei territori della resistenza e della resilienza; Maia Giacobbe Borelli “affronta” un corpo a corpo tra Artand e la virtualità nel manifesto per un teatro abortito mentre una “cinepresa cerebrale” si muove nel “teatro” di Carlo Quartucci e Carla Tatò. Chiudono il convegno le proiezioni di “Quadri espansi. La formazione nel cinema italiano” di Francesco Crispino e “La Lunga Ombra” di John Jost.
Il convegno ha mostrato quanto il mondo dell’arte, del cinema, della danza e del teatro, la loro produzione e codifica siano vivi e resistano alle crisi; anzi, sono forse proprio le “opportunità insite nelle crisi” che rendono più forte l’uomo e la sua arte. Rimandando alla XX edizione del Convegno, che qualcuno ha simpaticamente pre-battezzato “XX Congresso”, i protagonisti mettono un altro piccolo, ma importante tassello nella Fabbrica della Conoscenza in un’Italia che dopo il 27 novembre può immaginarsi e ritrovarsi speciale nel Multiverso della creatività, ricominciando a scrivere pagine di cultura per riempire il bagaglio della conoscenza con cui viaggiare nel mondo.
Marco Brama

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