mercoledì 25 dicembre 2013

Art Zone Slant Zero - Marco Brama

AZSZ è un lavoro orchestrale di Marco Brama in atto unico che tenta di conciliare la tradizione classica con quella contemporanea aprendo un nuovo filone compositivo. Numerose le citazioni per i golosi e i colti della musica a partire da l barocco italiano passando per Berlioz e Mahler fino ad arrivare in un punto non precisato della musica contemporanea. Potremmo semplicemente definirlo apripista d'avanguardia! Coraggioso! Sotto il collegamento per ascoltare il 4° movimento dell'opera.



sabato 21 dicembre 2013

Antonio Vivaldi - Il concerto italiano

Un punto fondamentale per lo sviluppo dei Concerti come li intendiamo oggi è da attribuire a diversi fattori che si sono venuti a creare nel corso del XVII secolo. Innanzitutto si sviluppò, soprattutto nel nord-ovest dell'Europa, l'editoria musicale che sfruttava la tecnica su lastre di rame che consentiva un abbassamento dei costi e quindi aumentava la diffusione delle copie degli spartiti. Le esecuzioni pubbliche, dette Accademie, associazioni culturali che si svilupparono in questo periodo, permisero il formarsi di quel discorso musicale finalmente "fine a se stesso" giacchè la musica non era creata per funzioni ecclesiastiche o commissionata per feste e cerimonie. Le accademie a pagamento in questo periodo si diffondono grazie anche ai musicisti dilettanti che sono spesso membri della piccola nobiltà e della ricca borghesia che rappresentano anche le categorie più numerose nel pubblico. Il pubblico era per la prima volta eterogeneo e appassionato di musica. Sono molti i dilettanti che apprezzano i grandi virtuosi e questo fa si che nelle composizioni sempre più peso assumano gli elementi solistici e questo in tutti i generi musicali. In Italia nei primi decenni del '700 l'editoria è ancora affidata alla stampa a caratteri mobili e molti compositori per stampare si rivolgono a editori stranieri, soprattutto olandesi.
Questo ha contribuito alla diffusione del repertorio Italiano in tutta Europa. La storia del concerto non è ovviamente legata solo alla diffusione degli spartiti e non va confusa semplicemente con quello che noi oggi chiamiamo Concerto. In realtà è la storia delle forme strumentali più importanti per la musica occidentale come la sinfonia e la sonata che costituiranno la base di tutte le forme sonore, seppure con i mutamenti geografici e temporali, fino ai giorni nostri. Il termine Sinfonia compare molto presto, ma non ha certo il significato che le attribuiamo oggi; piuttosto era sinonimo di avantiopera. Era una composizione eseguita con molti strumenti sì, ma prima o all'interno di un'opera. e quindi ne era un momento, un frammento, un divertissment. Aveva un carattere spesso completamente indipendente dall'opera in cui era inserita e poteva anche essere scambiata  più o meno arbitrariamente con altre composizioni. Non era ancora delineata una uniformità stilistica. Fu solo dagli anni '20 del '700, quando i maestri napoletani cominciano ad espandere la composizione, allungandone le proporzioni dei singoli movimenti e creando uno schema riconoscibile fatto di tre parti di cui quelle esterne veloci e quella interna lenta, che si cominciò a definire una struttura peculiare. Nel primo movimento compaiono due temi che vengono spesso esposti in tonica e dominante. Lo sviluppo è praticamente omesso o molto condensato, mentre è già presente la ripresa e il contrasto tematico tra gli elementi o tra i temi. I tempi lenti centrali sono cantabili e lirici, mentre quelli finali adottano misure ternarie in 3/4 o 6/8 e hanno un carattere danzereccio o di fanfara. Questa struttura rendeva la composizione molto intellegibile come richiedevano le modeste capacità tecniche dei musicisti dilettanti delle Accademie che volevano rieseguirle pubblicamente insieme a musicisti professionisti. L'ensemble era generalmente affidato a 4 parti d'archi con oboi o flauti e corni. Divenne poi una prassi la presenza della tromba che contrastava con la timbrica degli archi. Alla tromba veniva affidato il compito di esprimere sentimenti bellicosi, collerici, quasi vendicativi. Il tutto si andò consolidando fino a quando Giuseppe Torelli ne codificò le strutture e ampliò la forma inserendo fino a 4 trombe. Torelli fu importantissimo perché definì la concezione del concerto solistico in 3 movimenti veloce-lento-veloce. Questa divisione, che potrebbe apparire oggi ovvia e un po' banale, è in realtà alla base di quasi tutte le composizioni orchestrali dei secoli successivi -anche se ovviamente con modifiche, aggiunte, omissioni e quant'altro-. Antonio Vivaldi apprese sicuramente molto da Torelli, certamente per la struttura dei 3 movimenti, ma fu evidentemente influenzato anche da Giorgio Gentili e Tomaso Albinoni, anche se ne arricchì le scritture strumentali, specialmente quelle solistiche del violino, con una varietà di effetti che influenzeranno tutta la tecnica del suo tempo. La vita di Vivaldi è in parte ancora sconosciuta perché dopo la sua morte venne dimenticato. Questo accadde perché i suoi contemporanei italiani, a differenza di quelli francesi e tedeschi, non apprezzarono mai realmente Vivaldi come compositore. Lo considerarono un grande violinista, ma un compositore con uno stile curioso e diverso dagli standard dell'epoca, un compositore di musica adatta solo a far divertire i ragazzi. In effetti Vivaldi era circondato da ragazzi, specialmente da fanciulle. Si andavano sviluppando in quest'epoca i Conservatori, cioè degli istituti di pietà che accoglievano ragazzi disagiati o orfani a cui venivano insegnati i mestieri, tra i quali quello del musicista. La ricca produzione di Vivaldi è in parte da attribuire proprio ai suoi impegni presso la Pietà. Non fu certo solo il fatto di non essere apprezzato in Italia come compositore a farlo finire nell'oblio, era in realtà prassi durante il XVI e XVII secolo suonare sempre brani nuovi e raramente esecuzioni passate. Inoltre con i guadagni dei concerti a pagamento, che si andavano diffondendo, si risollevavano in parte le necessità economiche dei conservatori stessi. Ma la musica di Vivaldi non si diffuse solo per via dei concerti, ma anche e soprattutto per gli interessi di musicisti d'oltralpe tra cui il violinista e copista Pisendel che contribuì alla diffusione delle composizioni del genio veneziano in Germania. Con il Prete Rosso - così era conosciuto Vivaldi - il concerto solistico del primo '700 entra nella fase più matura. Egli accentua il contrasto tra i movimenti estremi e quelli centrali sottolineandolo anche per mezzo del solista. Egli tende a semplificare e snellire il tessuto orchestrale con raddoppi e unisoni che gli permettono di ridurre le parti reali che sono solitamente 3 o 4. La scrittura risulta leggera, cristallina, i bassi talvolta suonano nei registri medio-alti; per rendere il suono ancora più delicato e leggero talvolta il violoncelli e il contrabasso suonano in pizzicato. E' prassi vivaldiana anche quella di sfruttare i registri estremi come nel caso del violino dove vengono eseguite note molto acute. Vengono creati anche effetti che simulano l'eco, e la dinamica diventa sempre più curata e varia con forti contrasti come nella "Primavera" dove al pianissimo dei violini (che rappresentano un pastore che dorme) si contrappone il fortissimo strappato della viola (che rappresenta un cane che abbaia). A livello armonico l'impianto tonale tende ad evidenziare con forza il dualismo maggiore e minore con incursioni spesso fugaci drammatiche in minore o distese in maggiore. Le progressioni armoniche sono incentrate su tonica, sottodominante e dominante con stazionamenti su cadenze perfette (I-IV-V-I). Il passaggio alla nuova tonalità avviene passando generalmente dalla modale, dalla sottodominante o dalla sensibile. L'impianto melodico è composto da motivi semplici che sembrano cuciti sullo strumento; articolate sono invece le variazioni che su questi motivi vencono create. L'impiato ritmico è generalmente molto marcato e diversificato. In apertura Vivaldi predilige schemi anapestici, e durante lo svolgimento ritmi distribuiti o simultanei incastrati in modo originale. Usa spesso la sincope per produrre effetti di tensione o il ritmo lombardo per creare effetti ritmici inaspettati. Se nei concerti usa poco elementi contrappuntistici, in altre forme, come quelle vocali sacre, utilizza spesso l'imitazione a 2 o più parti. Nei suoi concerti infine possiamo trovare una struttura caratteristica detta forma-ritornello in cui il Tutti si ripete più volte (appunto come ritornello) e viene inframezzato dal solista che ripropone il tema variato o il tutti com'è o anch'esso variato. La musica di Vivaldi fu lungamente studiata da Bach il quale ne trascrisse e riadattò molte parti e lo considerò un modello importante per la sua musica. Riscoperto nel corso del XX secolo Vivaldi non è sempre stato apprezzato come compositore; Stravinskiy diceva che aveva scritto 500 volte lo stesso concerto, ma questa è certamente un'opinione personale e cervellotica. La musica non deve essere necessariamente complessa nel fluire, anzi, spesso la facilità d'ascolto può nascondere un'idea razionale molto matura (basti pensare al 3° e 4° tempo della Sinfonia Eroica di Beethoven) e non autoreferenziale. Infine come diciamo sempre noi di DIVERSE ANGOLAZIONI, ogni opera va sempre contestualizzata e apprezzata per quello che ha apportato alla storia del genere umano ... e in questo senso l'opera di Vivaldi è una delle più importanti di tutti i tempi.
Marco Brama

venerdì 20 dicembre 2013

Esperienza Estetica

Alexander DORNER nella sua opera maggiore THE WAY BEYOND ART si ispira al pragmatismo deweyano; egli utilizza un modello interpretativo che intende sviluppare una possibilità di lettura della vicenda umana in termini di auto trasformazione totale delle strutture culturali, verso un concetto di libera evoluzione affrancata dalla tradizionale opposizione tra ESSERE ASSOLUTO e DIVENIRE STORICO. Per Dorner c’è una comune tendenza a ricondurre l’intero arco delle manifestazioni della cultura umana a specifiche strutture spirituali innate e permanenti, senza appunto considerare che si tratta di tipi storici e transitori di organizzazione dell’esperienza (seppure ampiamente diffusi e consolidati nella tradizione). L’interpretazione della cultura arcaica dal paleolitico superiore fino alle civiltà preelleniche occupa un ampio capitolo centrale del lavoro di Dorner L’EVOLUZIONE DELA REALTA’
Davenport - Giacomo Guidi
MAGICA. Egli osserva le civiltà del Calendario, le grotte di Lascaux, Niaux, Altamira. I disegni DEMONICI, sono stati creati per influire sulla vita quotidiana e non possono essere paragonati a nessuna arte o al piacere estetico che ne deriva. In questa proto-mentalità, che potremmo definire una Mentalità Magica, la Rappresentazione di un animale non è fine a se stessa, ma incarna il momento, quel momento specifico. Per le società arcaiche manca un’attitudine selezionatrice; l’oggetto incarna tutto e non è un simbolo. Le rappresentazioni sono incisive, aggressive e dinamiche, strettamente collegate all’efficacia pratica del rituale. Le opere arcaiche sembrano inseguire la ricchezza, la fuggevolezza, insomma l’impatto fulmineo di potenti impressioni colte nella loro simultaneità al di qua di ogni esigenza di coordinazione o gerarchia; si ricrea una rappresentazione EFFICACEMENTE VIVA. Tuttavia, secondo il critico tedesco, è possibile cogliere nelle civiltà del calendario (Egitto, Messico, Mesopotamia) il primo tentativo di creare un ordine nel caos dei potenti oggetti demonici, un abbozzo di coordinazione e di gerarchia degli elementi. Tuttavia l’opera arcaica vive in quel momento, è un opera dei sensi; nessun oggetto può essere diviso in parti di cui alcune soggette a mutamento e altre no. Le produzioni iconografiche sono atti creativi istintivi, non opere da osservare; nella rappresentazione c’è tutto, la vita stessa, il bisogno vitale della caccia, della riproduzione. Per lo storico dell’arte BRANDI l’immagine magica si colloca all’inizio del processo di distinzione-costituzione delle due fondamentali funzioni della coscienza umana: quella figurativa e quella semantica. Alle produzioni del paleolitico o del neolitico non è possibile attribuire valore o intenzionalità d’arte proprio perché esse si situano al di qua di quella cruciale biforcazione: le pitture parietali offrono contemporaneamente immagine e conoscenza della realtà; non si può negare la potenziale figuratività di queste rappresentazioni, ma la sostanza conoscitiva non è ancora di tipo SEMANTICO vero e proprio. La diversità fondamentale tra arcaico e classico, per BRANDI,  è la chiarezza con cui si distingue segno e immagine; distinzione che ha valore strutturale perché corrisponde al definirsi della COSCIENZA nella sua fondamentale bidirezionalità. La civiltà greca compie quel passo decisivo e incalcolabile costituito dalla più netta separazione delle due dimensioni della coscienza: quella ARTISTICA, dove l’immagine si libera dei residui referenzialistici sviluppando una diretta specularità che si innalza a forma, e quella CONOSCITIVA nel lògos, che fa decadere, nella costituzione del concetto, ogni connotazione figurativa. Per Dorner un punto di svolta sicuramente parziale, ma significativo si verifica proprio nella fase egizia con lo

Christo e Jeanne Claude in Sidney
sviluppo di una REGOLARITA’ nella successione delle immagini e nella loro realizzazione all’interno di spazi delimitati quadrangolari. C’è un mutamento, un approfondimento lento e multiforme e solo con l’avvento della civiltà greca si assiste alla maturazione di un vero pensiero razionale. Non si ha più gerarchia di figure, ma la trasformazione della superficie in simbolo. Nella cultura greca si cerca l’assoluto, il razionale nella forma; così come la filosofia cercava di scoprire gli oggetti ultimi, razionali, immutabili, così l’arte tendeva a rappresentare l’essere interiore. Gli ENTI FISSI nella mentalità antica, sono forme estetiche, ossia cose che possono ancora essere percepite coi sensi nonostante la loro astrattezza spirituale, il pensiero classico è quindi ancora legato alla dimensione della sensibilità; gli oggetti della conoscenza SUPERIORE coincidono con quelli CERTI e le forme sono molteplici, non ultime; quindi RAZIONALE e RAPPRESENTAZIONE SENSIBILE sono inseparabili. Per Aristotele gli Dei della forma sono molti, in ragione del limite che ogni forma comporta, non possono essere che molti. Per i Greci il mondo ambiguo delle figure delle religioni mediterranee si scinde e si fissa nella singolarità univoca delle divinità olimpiche: I SENSI DA REALI A FIGURATI cadono, la molteplicità delle rappresentazioni si fa molteplicità delle sostanze, quindi per CARLO DIANO le cose riducono intera alla SUPERFICIE (quindi mettono fuori, visibile, rappresentato) la loro ESSENZA invisibile, interiore.  È il mondo delle forme che sorge e con esso appare per la prima volta lo spazio separato dal tempo. Comincia ad emergere il mondo di queste forme, che sono molteplici perché fatte da molteplici sostanze. La dimensione dell’evento è la dimensione del divenire, della mobilità a cui corrisponde un modello pratico e tecnico del sapere. ERIC HAVELOCK in PREFACE TO PLATO sostiene però che nel linguaggio platonico FORMA E IDEA sono termini che indicano GLI OGGETTI CHE SONO ben distinti e opposti rispetto alla classe degli eventi e degli oggetti dell’esperienza sensibile, ossia rispetto a quei fatti che avvengono piuttosto che essere e che sono rappresentati per immagini invece di venir pensati. Platone chiama FORME i SIMBOLI delle astrazioni morali per renderle definitive perché per Platone le forme non possono essere create ma solo contemplate e comprese.  La lettura platonica svolta da Havelock arreca un ulteriore sostegno a quella proposta da Dorner del pensiero antico In termini di pensiero estetico, giacché vien fuori l’assoluta centralità del legame tra forma, stabilità e percezione qualitativa. Il pensiero Platonico appare già pienamente contraddistinto da un processo di intima fusione tra logica ed estetica e, parallelamente, da un consapevole distacco tra il concetto di un autentico sapere e tutte quelle forme di esercizio culturale che sono legate alle THECHNAI, alla POIESIS, alla costruttività e all’artificio. Attraverso il pensiero filosofico viene perseguita la costituzione dell’immagine di una forma solida che sfugge alla magica indeterminatezza. I solidi platonici rappresentano fuoco, terra, aria, acqua e universo; l’affinità di filosofia ed arti si manifesta non solo dell’aspirazione al raggiungimento di forme ultime e ideali, ma nel presentarle come qualcosa di DIRETTAMENTE PERCEPIBILE. L’uso del termine EIDOS (Forma/aspetto) in Platone rimanda a una situazione di questo genere infatti, mentre cerca di oggettivare e separare la conoscenza superiore dall’opinione comune, osserva Havelock, Platone tende anche a rendere la conoscenza nuovamente visiva, da contemplare visivamente.  La concezione razionale dell’universo in età classica è anche una concezione estetica in quanto cerca una dimensione armoniosa del mondo ultimo e ideale. Si può dunque affermare che già a partire da Platone c’è lo sviluppo di una concezione estetica dell’assoluto. C’è una piena identificazione di logica ed estetica, di struttura formale ed evidenza sensibile, ma c’è una frattura tra ESTETICO e ARTISTICO (in senso materiale).



Attraverso due grandi opere della maturità deweyana, ESPERIENZA E NATURA (1925) e LA RICERCA DELLA CERTEZZA (1929) Dewey sostiene che la scienza antica accettò i dati dei sensi nella loro apparenza esteriore e poi li organizzò, così come stavano naturalmente e originariamente, classificandoli per mezzo di operazioni di classificazione logica. Gli antichi Greci erano consapevoli dei difetti e delle lacune della percezione dal punto di vista conoscitivo. Per loro le categorie usate nella descrizione e spiegazione dei fenomeni naturali sono di natura estetica; una concezione di carattere estetico coglie gli immediati tratti qualitativi delle cose; attraverso un processo di selezione e organizzazione dei tratti qualitativi delle cose in base a armonia, proporzione e simmetria. La verità può essere ottenuta solo abbandonando la natura contingente delle cose. La forma fu la prima e ultima parola della filosofia perché era stata la prima e l’ultima dell’arte. Nella mentalità greca un oggetto è fatto perché se ne ha bisogno, l’arte non è un’attività libera e fine a se stessa. L’artigiano esiste solo in vista del prodotto ed il prodotto in vista del suo bisogno. Il fine del processo, la forma, è il principio e la fonte di tutta l’operazione. L’uomo libero è universalmente utente e mai produttore; l’utente è superiore, perché libero, rispetto all’artefice, alle variegate espressioni dell’artigianato, della poiesis. . Per ARISTOTELE nelle cose, nella natura è già presente il senso che l’uomo può soltanto portare alla luce e non creare. Aristotele condizionerà tutto il pensiero fino al ‘600 con l’idea che la sostanza è costituita dalla pluralità della materia e dalle sue qualità: per lui non è possibile trovarne l’omogeneità totale di fondo. Per i Greci gli oggetti della scienza sono gli stessi oggetti del senso comune. Per i MODERNI gli oggetti non sono da assumere come criteri di spiegazione, ma semplici punti di partenza. Il carattere peculiare della scienza antica è contemplazione estetica degli oggetti, supremamente reali. Con GALILEO e NEWTON la natura verrà vista come una massa informe, regolata da leggi e qualità universali.  Per gli antichi, manca la concezione di spazio e tempo infiniti e assoluti tali da costituire un A-PRIORI universale e unitario. La matematica e la geometria rimangono una classificazione naturale dei fenomeni appunto naturali, come appaiono dall’osservazione diretta; misura, simmetria rispondono a canoni essenzialmente estetici. I simboli e le forme matematici e geometrici sono il primo passo verso l’emancipazione della scienza dal senso comune. Per gli antichi tutti i fenomeni naturali dovevano essere conosciuti in termini qualitativi come bello o brutto, forte o debole. Galileo e i suoi seguaci dicono che queste forme sensibili sono problemi su cui indagare e non soluzioni; bisogna cercare gli oggetti di conoscenza su cui fondarsi e con cui proseguire nell’indagine. Per i greci invece il pensiero geometrico è visivo, realistico e non può essere astratto, manca nella filosofia greca il concetto di ESPERIMENTO SISTEMATICO CONTROLLATO. La tecnologia non fu collocata alla spiegazione razionale e questo può essere spiegato per l’interesse al lato qualitativo degli oggetti già esistenti e non sperimentale e costruttivo; il carattere delle arti nel mondo antico e nel medioevo è transitorio e strumentale. A partire dal V-VI secolo d.C. si definisce e consolida un vero e proprio sistema delle arti liberali e meccaniche che sono una COPPIA OPPOSITIVA appunto di THEOREÌN  (teoria) e POIEIN (fare, creare umano) – tra EPISTEME (aspetto rigoroso e teorico della conoscenza) e TECHNE’ (arte del saper fare) – tra SUPERIORE e INFERIORE tra conoscere e fare.  Nel Medioevo l’estetica è ancora incorporata nella metafisica; solo a partire dal RINASCIMENTO con la crisi delle organizzazioni artigianali medioevali, con la rivalutazione dell’antichità classica, con il riconoscimento dei fondamenti scientifici delle arti figurative si inizia a delineare la figura moderna dell’ARTISTA. Si comincia a SCORPORARE la pittura, la scultura e l’architettura dal corpo delle arti meccaniche riconoscendone maggiore e significativo valore intellettuale; pur mantenendo un aspetto FABBRILE e OPERATIVO prevale ora la concettualità. Osserva lo storico dell’arte ANTHONY BLUNT che per la figura poliedrica rinascimentale di LEON BATTISTA ALBERTI il disegno è l’anello di congiunzione tra architettura e matematica. La bellezza per Alberti è accordo e

High Gospel di Alberto Tadiello
armonia delle parti in relazione a un tutto al quale esse sono legate; un tutto naturale fatto di armonia, simmetria e proporzione. Anche Leonardo da Vinci stacca la pittura dalle Arti Meccaniche perché per dipingere serve la conoscenza della matematica, dell’ottica, dell’anatomia e molto altro. La rappresentazione statica e tridimensionale della realtà inizia in Grecia e culmina nel Rinascimento. Solo nel XVIII SECOLO si assiste al costruirsi e consolidarsi in Europa di 2 fenomeni complementari: l’apertura in filosofia dei territori del bello e l’imporsi di una nozione diffusa di ARTE BELLA.  Il sorgere e lo svilupparsi dell’estetica si presenta come un evento legato al passaggio dal MONDO DEL PRESSAPPOCO all’UNIVERSO DELLA PRECISIONE. Da questo momento c’è una separazione tra oggetto fisico della scienza e oggetto dell’esperienza ordinaria. C’è un’analisi matematizzabile di tempo, massa, moto e spazio. Questa rivoluzione riduce la realtà degli oggetti a tali proprietà matematiche e meccaniche. Si fa più netto il divorzio tra senso comune e contenuto della conoscenza. Nasce il dualismo tra logica ed estetica mentre tramonta la visione prettamente qualitativa. Questo dà impulso alla ricerca sperimentale svincolando gli oggetti dalla loro visione “finale” e li mostra come PROBLEMI D’INDAGINE modificando costumi e pregiudizi. Per CARTESIO esiste un DUALISMO EPISTEMOLOGICO e METAFISICO tra corpo e anima. Il metodo della matematica e della geometria costituiscono la realtà per eccellenza. Il PENSIERO è ASSOLUTO ed è l’ESSEREche è distinto dal corpo. Senza le uniformità la scienza sarebbe impossibile; allo stesso tempo se esistessero solo le uniformità del pensiero e della conoscenza sarebbe priva di significato. Per Edmund HUSSERL, Cartesio confonde il mondo e il pensiero. L’estetica è la teorizzazione filosofica dell’arte bella. Gran parte della filosofia dell’arte dal '700 in poi trae le sue motivazioni fondamentali dalla distinzione e opposizione tra LOGICA SCIENTIFICA e PROSPETTIVA ESTETICA; questo scaturisce in gran parte dalla necessità di rinaturalizzare gli oggetti, di restituire ai fenomeni profondità, spessore, calore, caratteristiche che il nuovo metodo scientifico sostiene essere ININFLUENTI per determinare la realtà. Altrettanto fondamentale è l’avvento di una frattura tra logica ed etica in quanto quello che accade con la rivoluzione scientifica è una generale divaricazione tra dimensione del fatto dimensione del valore tra OGGETTIVITA’ E SOGGETTIVITA’; è questo per DEWEY il problema decisivo del pensiero moderno. Il tutto può essere sintetizzato: nella civiltà antica e medioevale e anche nella scienza classica prevale una forma di organicismo culturale, la riflessione e il pensiero mostrano un forte legame tra conoscenza e senso comune, interiorità ed esteriorità, tra verità assoluta e sensi; il sapere è contrassegnato da un forte naturalismo. La NUOVA SCIENZA trascura deliberatamente i caratteri e i significati immediati dei fenomeni trasformando gli eventi negli oggetti propri della conoscenza. L’OGGETTO della conoscenza è la REALTA’ per eccellenza. Le qualità vengono espulse dagli oggetti della scienza e vengono messe in un REGNO PSICOLOGICO contrapposto agli oggetti della fisica. Questo potenziamento delle proprietà e delle relazioni matematiche al rango di UNICHE strutture reali dell’essere provoca l’oscuramento della natura STRUMENTALE e METODOLOGICA di quelle relazioni e la perdita del senso del loro radicamento ultimo nel mondo della vita e delle qualità esistenziali. Questo va combattuto perché tutte le forme da  cui deriva il pensiero scientifico non sono negative, illusorie, insignificanti, da negare.  Bisogna cercare di intraprendere un risarcimento del CONCETTO DI ESPERIENZA, riprendere il pragmatismo Deweyano e fenomenologia Husserliana che hanno condotto, indipendentemente, una battaglia contro dualismo metafisico, contro la tendenza a distinguere nettamente intelletto da sensibile, fatto da valore, interiorità ed esteriorità.



In Rifare la filosofia del 1920 Dewey analizza la sfera qualitativa-sentimentale, cioè estetica in senso largo, che è alla base della filosofia. L’uomo vive in un mondo fatto di sogni e simboli (la fiamma ad esempio rappresenta il focolare, la casa). Osserva come la memoria dell’uomo si forma grazie ad esperienze emotive e non intellettuali. Sono le emozioni che formano il nostro io, e il nostro essere si forma attraverso l’ESPERIENZA che per Dewey è vita, storia e cultura. L’esperienza è precaria, fugace, molteplice e in divenire e l’uomo mostra il tentativo di stabilizzarla di volta in volta. Dewey introduce il concetto di metodo empirico in filosofia. Per il filosofo americano la filosofia è trovare leggi e uniformità meccaniche che rendono il mondo familiare; trovare il fine che rende un’esperienza perfetta, pienamente soddisfacente; il desiderio di fissare e rendere stabili gli eventi. La sua METAFISICA NATURALISTICA sostiene che l’esperienza è un mondo di eventi naturali inclusa la riflessione su di essi che quindi è essa stessa naturale. L’EVENTO è un’esperienza estetica che si verifica prima che la logica ne faccia l’analisi. La logica vuole rendere razionale l’evento irrazionale, il sensibile. Il NATURALISMO EMPIRICO di D. trova nell’arte la più compiuta incorporazione di forze e processi naturali. Uno degli obiettivi del METODO EMPIRICO è mostrare l’inaffidabilità di teorie che separano uomo e natura. L’esperienza è sia della natura che nella natura; ciò che incontriamo quando facciamo esperienza è la natura. I tratti estetici e morali dell’esperienza possono rivelarci aspetti della struttura meccanica della natura stessa.  Vediamo come l’ESPERIENZA PRIMARIA, sensibile, (condannata da altre filosofie) ha un impatto immediato col mondo mentre quella SECONDARIA, logica, sia riflessa e dovuta all’elaborazione. Per Dewey è un punto di partenza e di arrivo di ogni processo; l’esperienza è CIO’ che l’uomo agisce, subisce, gode sia il MODO in cui agisce e subisce l’esperienza. Un errore diffuso, sostiene, è la
Performance Danilo De Mitri
tendenza a identificare la realtà con l’oggetto della conoscenza. L’errore è confondere oggetti con concetti fatti su di essi unificando REALTA’ EFFETTIVA (LOGICA) e CONOSCENZA (EMPIRICA). Il metodo empirico si propone di esplicitare la scelta che è alla base di ogni naturalizzazione e sostantificazione. I riti e i culti religiosi nascono dall’incertezza, l’instabilità e la precarietà. La filosofia greca privilegia eterno a temporale, stabilità a mutamento dimenticando che ne sono il risultato.  Nella metafisica naturalistica di Dewey l’incompiutezza e la precarietà hanno la stessa importanza della stabilità e della compiutezza. Ciò che è incompiuto, precario è importante quanto ciò che è compiuto e stabile. Forse ARISTOTELE fu il più vicino ad una forma di metafisica naturalistica; nella RETORICA in effetti compaiono forme non EPISTEMICHE (non certe) di SILLOGISMO (ragionamento concatenato)  forme non certe di ragionamenti basati su probabilità e possibilità; è anche autore di una poetica basata sulla VEROSIMIGLIANZA e contenente una teoria della metafora come strumento conoscitivo che ci consente di cogliere le differenze fra le cose più che le identità, il movimento più che la stabilità, la singolarità più che la loro generalità. Per DEWEY realtà e apparenza sono mere classificazioni, il mondo dell’esistenza non conosce dislivelli o distinzioni, ma fusioni tra certo e incerto. Precarietà e imperfezione attivano il desiderio, il desiderio di stabilità e perfezione cioè qualcosa che ancora non c’è, che non abbiamo, che deve ancora essere. Gli oggetti estetici hanno una qualità soddisfacente, sono gratuiti e possono essere conquistati senza sforzo. L’uomo ha cercato di trasformare le attività primarie in artistiche e l’esperienza estetica in ogni esperienza per renderla piacevole, per consumarla, averla, possederla, goderla. Prendiamo ad esempio l’attività della caccia. La caccia è un atto necessario per il godimento finale che è il PASTO; ma l’uomo ha l’immaginazione e cerca di trasformare tutto in un gioco; usando proprio l’immaginazione trasforma in estetico l’atto della caccia che diventa essa stessa godimento. Gli oggetti dell’immaginazione sfuggono alla realtà naturale. In ogni singolo evento esiste qualcosa di irriducibile e immediato. Il materialismo e l’idealismo condividono la stessa metafisica che trascura tali qualità immediate in nome di relazioni essenziali e di uno spirito di sistema che fissa in quadri stabili qualità dinamiche, molteplici, indefinibili ... ATTRAVERSO il SIMBOLO, che domina l'arte e la società primitiva, che diventa non solo segnale, ma incorpora i SENSI. I simboli sono sostituti e condensati di eventi reali e acquistano più senso degli oggetti rappresentati. Per tutti gli eventi esiste sempre qualcosa di totalmente immediato, singolare, unico. L’IMMEDIATEZZA dell’esistenza è ineffabile, ma non mistica, straordinaria, incomparabile, indescrivibile con parole semplici. Quindi KANTIANAMENTE questa immediatezza riflette la possibilità dell’apparire delle cose. La CONOSCENZA non ha alcun
Marina Abramovic THE KITCHEN V Performance
interesse per l’immediatezza esistenziale. Se volessimo standardizzare e quindi togliere l’immediatezza dall’esperienza non saremmo in grado di farlo; bisognerebbe avere un idea per ogni possibilità e questo manterrebbe solo un piano sensibile e mai logico delle idee generali, tuttavia le cose possono solo essere INDICATE e non DEFINITE. Partire dal carattere fondamentale della precarietà su cui si basa qualitativamente l’esperienza. La sensazione che percepiamo da un oggetto è piacevole o spiacevole ed è adeguata all’immediatezza con cui le cose si manifestano a noi. La coscienza non è solamente razionalità, ma si sostanzia di qualità immediate come sensazioni ed emozioni. Senza questo i contenuti della conoscenza sarebbero solo spettri algebrici. Le qualità immediate, che la tradizione moderna ha definito SECONDARIE, contengono tutto ciò che ha valore e significato. I Greci scorporano l’atteggiamento estetico dall’esperienza dell’arte e pongono questa su un piano inferiore rispetto alla scienza. Per loro il godimento è quello intellettuale, razionale, legato alla sapienza. Platone svaluta il piacere sensibile in quanto desiderio che implica un movimento, ossia una non stabilità;  al contrario esalta la stabile contemplazione delle forme intellegibili.  Per DEWEY è criticabile la pretesa della filosofia di costituire un ordine superiore rispetto all’arte e creare una divaricazione tra mutamento e stabilità con trasferimento del godimento verso compiutezza e perfezione della metafisica classica. Si radicò convinzione che alla compiutezza e perfezione, con cui si definì la metafisica classica, dovessero corrispondere oggetti compiuti e perfetti. Gli OGGETTI sono i FINI ultimi non le forme ultime della realtà. L’incertezza, la precarietà caratterizzano il regno qualitativo dell’esperienza ed è da qui che ha origine tutto ciò che ha valore e significato. Il linguaggio come sottolinea Paolo Marolda non contribuisce alla costruzione dell’esperienza, ma la rispecchia semplicemente. La metafisica naturalistica quindi sostiene che:
A- l'esperienza è imprevedibile e in divenire variabile
B- la natura non è insieme stabile di oggetti definiti una volta per tutti, ma il godimento
C- non esiste un soggetto per il quale esistono a priori le cose sottratte al divenire ed alla contingenza estetica in cui tutte sono immerse.
Per Dewey la coscienza va cercata lungo le linee di frattura e di intersezione della nostra esperienza quotidiana. L’uomo è integrato nella natura, in natura non ci sono distinzioni tra quantità e qualità, tra bisogni e contingenza, ma ritmo che “lavora” le cose. L’uomo trasforma causa - effetto in mezzo – fine. L’arte è la possibilità dell’uomo di incorporare nella materia un suo ideale. Nell’esperienza estetica i valori sensibili acquistano un significato finale; coincide con l’esperienza immediata delle cose. In essa c’è sempre qualcosa che ci colpisce, di imprevisto, di eccessivo che spicca, che richiama la nostra attenzione.  L’OGGETTO ESTETICO (CONOSCENZA SENSIBILE) è percepito nei suoi tratti sensibili-immediati, l’OGGETTO LOGICO nei suoi tratti razionali-universali (CONOSCENZA RAZIONALE). L’esperienza nella sua forma più perfetta coincide con l’opera d’arte. Per i greci l’esperienza è l’accumulo di saggezza pratica, l’intreccio di fare e sapere, saper fare qualcosa a regola d’arte. L’esperienza era quindi contrapposta alla scienza, veniva considerata meno importante perché legata ai livelli inferiori della natura corrotti dal caso e dal mutamento. L’arte in quanto esperienza rifletteva aspetti imperfetti della natura e quindi era considerata sinonimo di bisogno, mancanza, incompiutezza. Per i MODERNI la scienza è l’unica espressione della natura; l’arte è un arbitraria aggiunta alla natura e mentre viene disprezzata, in quanto esperienza, viene elogiata in quanto arte bella e creativa. C’è la separazione tra arte e fare pratico, tra arte e creatività e bellezza. Il carattere ideale dell’arte è il risultato di una scelta, di un’organizzazione dell’esperienza, una chiarificazione, intensificazione e concentrazione dell’esperienza; l’arte è legata sia alla pratica sia alla teoria. La dimensione estetica è connessa alla visione o all'ascolto; l’arte è il culmine supremo della natura, fatta di significati acquisiti e goduti. Per DEWEY si ha una vera esperienza solo quando essa è significativa, e sono significative le esperienze solo quando hanno come risultato una chiara visione o il godimento di una percezione. Per KANT il presupposto è la libertà di poter scegliere, essere liberi di dover scegliere il bene o il male, DEVI quindi PUOI. Se devi scegliere o il bene o il male significa che puoi farlo, puoi scegliere perché sei libero. Nella TERZA CRITICA Kant affronta un discorso sul bello che definisce "con misura" a differenza del sublime che è smisurato.  Il bello è indipendente dalla morale. Cade il vecchio concetto, retaggio della Chiesa, per cui
Carla Paiolo - Performance in Venice - photo Daniele Vita
Bello è necessariamente Buono e Brutto è necessariamente Cattivo. L’arte diventa la capacità di collegare instabile e durevole, vago e certo, singolare e universale. Per Dewey si ha arte in ogni esperienza in cui mezzi e scopi, processo e prodotto sono presenti contemporaneamente. L’oggetto artistico deve avere un carattere indefinitivamente strumentale e questa strumentalità deve rinnovarsi sempre in nuovi eventi soddisfacenti. Se fosse piattamente insignificante perderebbe la sua attrazione estetica. L’interazione tra SOGGETTO e OGGETTO DELL’ARTE è indeterminata e termina con un mutuo adattamento dell’individuo e dell’oggetto. Un oggetto CONSUMATORIO deve possedere una strumentalità che si rinnova sempre. Ogni OGGETTO che produce la percezione di un bene immediato è artistico. Tutte le attività intelligenti dell’uomo che si manifestano nella scienza, nelle belle arti o nelle relazioni sociali, hanno come compito quello di cambiare i legami CASUALI in una CONNESSIONE di MEZZI e conseguenze cioè SIGNIFICATI. Nell’arte tutto è comune tra mezzi e fini. Se questo avviene in modo compiuto si ha ARTE. Riassumendo:
A- Il pensiero umano tende a trasformare le casualità e le disorganicità in relazioni interne e significative
B- Tutto ciò che ha un senso coincide con la capacità di creare connessione tra mezzi e fini
C- Quando ci accorgiamo che l’esperienza che stiamo vivendo è per noi significativa, è un’esperienza artistica i cui mezzi e fini sono quasi indistinguibili.
La consapevolezza dei significati duraturi è più di un godimento passeggero o un fine. L’idea diventa arte e opera d’arte. Il fine costituisce la tendenza incessante verso il significato. Tale processo è ciò che Dewey chiama ARTE e il suo prodotto OPERA D’ARTE, quindi bisogna essere consapevoli dei significati dell’esperienza. Solo nella dimensione umana, in cui SENSIBILITA’ e INTELLEGIBILITA’ stanno insieme armonicamente, riusciamo a sentire i nostri impulsi, i nostri desideri come oggetti significativi. Noi non dobbiamo percepire in un’opera un senso specifico-determinato, un fine particolare, ma il senso delle tendenze in divenire che ci giunge dall’idea di completezza, esaustività, forma, misura, globalità. Per Dewey non esiste una natura tale per cui alcuni oggetti sono belli, altri buoni, altri veri; l’esperienza è indifferenziata, è tutto senza distinzioni di natura. Le differenze dipendono da come ci rapportiamo operativamente alle cose.



L’esperienza reale (e non quella possibile) ha per Dewey una semantica molto ampia, tale da assorbire il significato di vita, morte, storia, natura. L’esperienza comprende ciò che gli uomini fanno e soffrono, ciò che ricercano, amano, credono e sopportano ed anche il MODO in cui agiscono operano, subiscono l’azione esterna, cioè i PROCESSI DELL’ESPERIRE. L’esperienza è un’entità a due facce che include IO-MONDO, NATURA-UOMO, SOGGETTIVITA’-OGGETTIVITA’. Per la FILOSOFIA DELL’ESPERIENZA l’esperienza è sia scienza, perché descrive fedelmente il movimento del pensiero, sia arte in quanto escogita i mezzi di cui dovremmo avvalerci. La coscienza indica sia le qualità sensibili-immediate, sia il senso degli eventi, quindi è il luogo dove acquistano significato gli eventi, di cui si compongono le nostre esperienze, eventi che sono per un momento completi e sensati. Dall’analisi di ARTE COME ESPERIENZA, in cui parla della tesi relativa all’esteticità del pensiero riflesso, emerge lapidaria la frase: “IL PENSIERO E’ ARTE IN MODO EMINENTE”. L’esteticità è illuminazione di senso che viene proiettata all’indietro sulle cose dal significato che da queste è stato generato. Il pensiero stesso è un’illuminazione, ma può anche essere nebbia che nasconde, come l’idealismo di ogni tempo ha fatto. La prospettiva estetica del pensiero sostiene che la conoscenza nasce e si sviluppa su presupposti qualitativi, empirico-sensibili. Ogni fase di sviluppo del pensiero è una conclusione significativa di ciò che facciamo. Il SIGNIFICATO è la conclusione di un’indagine coronata da successo. L’esteticità del pensiero coincide allora con il piacere estetico che accompagna la consapevolezza relativa alla compiutezza, cioè la PER-FEZIONE nel senso di PERFICERE (ciò che è giunto a conclusione). L’arte innesta possibilità nuove alle cose, riplasmandole in contesti nuovi. Per Dewey è artistico tutto ciò che è umano. Anche la scienza è fatta dall’uomo e per l’uomo e deve essere reinserita nel circolo vitale dell’esperienza estetica e morale. Contemporaneamente bisogna abolire distinzione tra arti legate ai mezzi e arti legate ai fini in se. L’esperienza estetica è un’esperienza consumatoria in cui una situazione viene considerata come un tutto; kantianamente potremmo dire una TOTALITA’ INTERCONNESSA. Per Dewey la storia dell’esperienza coincide con lo sviluppo delle arti. In tale prospettiva la scienza è semplicemente uno sviluppo differenziato all’interno delle arti. La componente estetica è presente in ogni tipo di esperienza; la peculiarità è che in un’esperienza artistico-estetica si verifica l’ENFATIZZAZIONE DEL MOMENTO FRUITIVO-CONSUMATORIO, in cui qualcosa di particolare assume significato universale. L’esperienza rappresenta la conclusione significativa degli eventi naturali e umani, la finalità. È un’interdipendenza del fare (artistico) e del patire (fruizione). L’opera d’arte è allora un contingente che aspira al necessario. Ogni oggetto, ogni evento sono speciali e unici, una parte in un contesto. Dopo che abbiamo contestualizzato l’oggetto e ci siamo posti in sintonia o distonia con esso, lo consideriamo CONOSCITIVO. Non va però ritenuto che esistono due tipologie separate di conoscenza una IMMEDIATA (estetica) e una MEDIATA (logica). La qualità per Dewey è ciò che pervade l’esperienza e dà il tono a tutti gli elementi di una situazione. La qualità di quella particolare situazione non è mai generale, ma singolare, anzi, talmente unica da non poter essere espressa in parole. Per comprenderla dobbiamo tenere insieme sentire e pensare. Un problema va sia sentito sia enunciato; questi sono due momenti diversi all’interno dello stesso processo. Emilio Garroni in “Estetica uno sguardo attraverso” sostiene che l’estetica non è una scienza del bello, teoria o sistema delle arti belle, ma filosofia generale. La metafora che meglio esprime viene presa da Garroni in “Ricerche filosofiche” di Wittgenstain: il guardare attraverso. Essendo immersi nell’esperienza non possiamo guardarla dall’esterno; è, come direbbe Dewey una “situazione onnipervadente” dell’esperienza. Noi possiamo comprendere l’esperienza solo quando, stando all’interno, tentiamo di salire in superficie. L’estetica è da questo punto un “guardare-attraverso nel guardare”. Il compito di una teoria generale dell’arte sarà quello di ricostruire la continuità tra le opere d’arte da una parte e i fatti, le azioni, le passioni quotidiane dall’altra. La scissione tra ARTE e VITA (ma anche tra creatori d’arte e spettatori) è oggi visibile nei musei. Il museo, istituzionalizzando l’arte, ne delimita  lo spazio separandolo dall’esperienza quotidiana. Dewey prende la distanze da chi si vanta di mantenere e sviluppare la separazione dell’arte dagli oggetti dell’esperienza ordinaria. Le ragioni per cui l’arte è stata collocata su un piedistallo fuori dal mondo sono da collegare ad una sorta di sacro timore per tutto ciò che è ideale e spirituale e la correlativa avversione per tutto ciò che è corporeo, sensibile, materiale.  Nel libro “Come si forma un’esperienza” propone una differenza tra esperienze in genere e singola esperienza. L’esperienza, che per poter essere definita tale deve giungere a compimento, è una totalità indifferenziata in movimento in cui siamo sempre immersi, è un continuum in cui tutto scorre; se però ci sono delle fratture che ostacolano il normale fluire, se ci sono conflitto e resistenza che mettono in questione aspetti dell’io e del mondo, questi aspetti qualificheranno l’esperienza con emozioni e concetti che chiamiamo di solito INTENTO CONSAPEVOLE.  Ciò che differenzia un’esperienza e la fa “UNA” è la qualità che pervade l’intera esperienza nonostante il variare delle parti costitutive di essa.  La conclusione è la perfezione di un movimento; anche un’esperienza di pensiero ha la propria qualità estetica, cambia il materiale messo in opera: qualitativo/immediato (ARTISTICO), simbolico/mediato (INTELLETTUALE). Per Dewey nessuna esperienza di nessuna specie costituisce un’unità se non ha una qualità estetica, il cui collante è di carattere emotivo. L’emozione è la forza che fa muovere e che cementa, sceglie e tinge del suo colore quello che ha scelto dando così unità a materiali esteriormente disparati e dissimili. In tal modo infonde unità alle e attraverso le varie parti di un’esperienza. Quando l’unità è di questo tipo l’esperienza ha carattere estetico. Non è escluso il pensiero! Per Dewey non ci sono emozioni senza pensieri e pensieri senza emozioni. L’idea che un artista si lasci solo ispirare è ridicola, sarebbe  come se creasse senza sapere cosa fa. Egli pensa con intensità e penetrazione tanto quanto un ricercatore. L’esperienza artistica ha come suoi elementi fondamentali AZIONE e PASSIONE che devono stare in una relazione d’equilibrio. È questa relazione che dà significato all’esperienza artistico-estetica e afferrarla è obbiettivo dell’intelligenza. Nessun ragionamento può raggiungere la verità senza la fantasia e ogni esperienza artistica contiene un’indispensabile componente intellettuale-conoscitiva. La specificità dell’arte è una specificità EMPIRICO-TECNICA (SEMANTICA per della Volpe) che dipende dal modo con cui il sensibile viene organizzato in un tutto coerente, significativo, che richiede la presenza dell’intelletto. L’organicità di cui parla Dewey è di natura tecnica; dipende dai materiali usati, dai mezzi tecnici; c’è dunque una specificità dei diversi mezzi espressivi che condiziona e orienta il fare dell’artista. Gli oggetti d’arte sono espressi, sono un linguaggio o meglio, molti linguaggi. Ogni arte è una particolare forma linguistica che rappresenta uno specifico nodo di intervenire sulla materia. Il materiale appartiene al mondo dell’esperienza comune, la forma, il modo di organizzare tale materiale appartiene all’artista. La qualità di un’opera d’arte è sui generis perché il materiale generico viene trasformato in una sostanza nuova dalla maniera in cui viene trattato. La bellezza indica un’emozione caratteristica e denota la totale qualità estetica di un’esperienza. È il movimento della materia giunto al suo culmine, una fusione di materia e forma, senso e pensiero. Attraverso l’arte, significati di oggetti che altrimenti sono muti, indeterminati, contrastanti, si chiariscono mediante la creazione di una nuova esperienza. La prima caratteristica generale del mondo circostante, che rende possibile la produzione della forma artistica è il ritmo. Il ritmo, lo scorrere il fluire, il battere di un cuore che condiziona tutta la vita già dallo sviluppo embrionale ed è alla base di ogni organismo vivente … i ritmi naturali di alba, tramonto, giorno, notte, Sole, pioggia sono condizioni ritmiche dell’esistenza. L’uomo gradualmente assimilò i ritmi della natura per dare ordine e senso al rapporto con essa, cioè alle nostre diverse esperienze. L’uomo comincia a imporre un ritmo ai mutamenti nei quali la scansione non appare naturalmente. Il ritmo diventa artificiale perché solo organizzando ritmicamente le nostre esperienze queste possono acquistare una forma coerente e ordinata. I ritmi furono SUBITI e RIPRODOTTI generando il senso della vita come dramma, i tempi della natura vennero cioè impiegati come modelli esemplari per introdurre un ordine evidente nelle osservazioni incerte e indeterminate dell’uomo.

martedì 17 dicembre 2013

Musica questa dimenticata

Come la musica, arte effimera e sensibile sia finita nel vano bagagli dell'ultima carrozza è un po' lungo da spiegare, ma è innegabile. Assistiamo al declino dell'arte e al disinteresse generalizzato ogni giorno; su ogni monumento imbrattato, in ogni teatro vuoto. Eppure una considerazione è necessaria: la società è cambiata radicalmente. Non è più quella comunità solidale e curiosa figlia dell'incanto di una tecnologia sempre in divenire; semmai è un agglomerato omologato in un contesto globale in cui l'industria delle arti ha preso il sopravvento sull'artista. Un po' è sempre stato così ... produttori, mecenati, direttori artistici ... eppure oggi la frattura è grande: una ferita non rimarginabile. Il sublime, il bello svincolato dal buono, sembrano retaggi di un'epoca che fu. Eppure chi ancora sperimenta c'è, chi ancora crede in una cultura della performance, in una insana e sensata prova  d'orchestra esiste; non è istituzionale la sua novità,  il suo essere arte, ma esiste! La sua creatività è risultato di una società polimorma e poliedrica, stratificata e frenetica. I cultori della musica che fu non sono riusciti a seguire o anticipare gli stili, il loro è un inseguire affannato e affannoso di forme informi e in divenire; uno sciocco arrogarsi il diritto di universalizzare canoni estetici che nascono dalla mente dell'artista, ma ne sono specchio e non regola certa e immutabile. La forma sonata è stata plasmata, modificata e distrutta dai grandi: le regole sono un bisogno prettamente umano di classificare e generalizzare forme nuove. In tutto questo non aiuta nemmeno il senso della musica e la sua conoscenza insegnati nelle scuole primarie. Uno sparuto Inno alla gioia, un Mattino accennato al flauto del tutto decontestualizzi non danno merito alla storia dell'arte più pura ed impalpabile. Bisogna dare alla musica il giusto gradino sul podio della cultura, soprattutto in un paese che è ne è stato faro di innovazione per secoli... ma anche osare e dare voce al nuovo, a chi crede che il cammino di Berio o Stravinskiy non sia stato vano e improduttivo. Niente magniloquenza e autoreferenzialità, ma umile prova di tentativi ed esperienze precarie e incerte, non assoluto, ma contingente. La musica non deve essere fatta dai critici o dai produttori, ma dagli artisti e un artista è sempre pronto alla discussione, all'esperienza. Sostenere che in questo periodo non ci sono bravi compositori è superficiale e quasi "da bar". La musica è cambiata ... diceva qualcuno... e aveva ragione; ma non può e non deve ridursi a mercificazione del corpo e a visualizzazione dei suoni in videoclip pornografici ... potrebbe anche esserlo, ma per ricerca e non per necessità o mortificazione dell'intelletto al denaro. Auspico che queste parole vengano lette e che qualcuno, qualcuno che fa della musica la sua ragione di vita, prenda spunto per un nuovo slancio creativo.
Marco Brama

giovedì 5 dicembre 2013

Avanguardia? Prrr!!! Meglio il petrolio!


Ebbene, troppo ridere questo termine! Avanguardia! Molto divertente! Pensare che io sono un compositore d'avanguardia! Ma avanguardia classica? Se è classica come fa ad essere d'avanguardia? Essere estremista, audace, innovativo, in anticipo sui gusti e sulle conoscenze? Forse, non ne sono troppo convinto, sono sicuro però che, nel caso delle arti, il processo creativo è diventato processo produttivo di stampo industriale con conseguente fusione di settore terziario (quaternario e quinario). L'industria discografica ha praticamente fagocitato tutte le forme di espressione (tranne le avanguardie che fortunatamente o sfortunatamente non se le fila nessuno) e i signori dell'arte e della scienza volta all'organizzazione dei suoni nel corso del tempo e nello spazio, ne sono vittime e carnefici. Cosa è arte? Cos'è estetica? I filosofi greci soffrivano nello scindere assoluto da pratico, ma la musica è tutt'altro che pratica; forse è per questo che non si vendono più CD, ah ah ... e forse è anche giusto, in fondo la musica non è palpabile; è pura, eterea; sensibile si, ma esiste solo nell'istante in cui si manifesta. I CD per tanto sono dei supporti mistificatori; rendere materiale l'arte immateriale per eccellenza! Bah ... Forse pagare il supporto ... forse. Comunque ad oggi la musica è stata relegata a jingle pubblicitario, evento da pub mal pagato, concerto autoreferenziale e accademicizzato frequentato da cariatidi, accompagnamentino da film per il grande pubblico; la musica colta soffre una sconfitta schiacciante fatta da autoimplosioni autoindotte e il jazz, che non è certo una musica "colta", si sta autofagocitando fino al midollo, stravolgendo con arroganza e supponenza la sua meravigliosa origine popolare. CHE CONFUSIONE! Sarà perchè ti amo; cantavano i Ricchi e Poveri; in effetti è proprio così! Ricchi e poveri! Figli di serie A che
producono tanti soldi (un po' come i venerati venditori nelle aziende porta a porta) e figli di serie B che i soldi li vogliono (un po' come gli insegnanti che SECONDO LA COLTISSIMA DOTTRINA NEOLIBERISTA non producuno nulla, perchè la cultura non è appunto PALPABILE, ma immateriale!) La musica popolare? Bene, bene; il problema si fa stringente e non lo risolverò oggi, ma il succo è presto spremuto. La musica "colta" (scritta per intenderci) è stata sempre appannaggio della ricca borghesia e degli aristocratici; oggi le cose sono cambiate e quindi è ovvio che la musica classica non ha più ragione di esistere ... o probabilmente si è trasformata come la società, si è popolarizzata e "loro" non se ne sono accorti! Io si! ... e proseguo imperterrito nella ricerca dello stile assoluto, della forma solida immateriale, del fluire etereo di vibrazioni universali che parlino di me e del mondo in cui mi trovo per un pubblico eterogeneo e vasto che spero aumenti e capisca (non certo per le elite). Creare, esprimere, non avere paura delle etichette, della sindrome della notorietà, dell'angoscia da solitudine post-leopardiana! Questo cerco con la mia arte (si non mi va di fare il finto modesto, non c'ho più l'età per farlo) e con Diverse Angolazioni! Dare voce a chi ancora crede che un mondo alternativo a questa massificazione petrolmonetifera, che ha già tolto troppa dignità alla cultura, possa esistere! (PS se la Teoria biogenica del petrolio è giusta, il nostro mondo è costruito e alimentato con i cadaveri del passato! ... avanguardia energetica ?)
Marco Brama

mercoledì 4 dicembre 2013

Media Digitali e morte dell'arte


Come i "nuovi" media stiano cambiando la comunità e il pubblico è cosa nota, quello che è meno noto è come questa presunta democratizzazione dal basso stia in realtà ripercorrendo il gioco piramidale della società capitalistica. In effetti tutto quello che "accade" sul World Wide Web è oggetto di studi e di trattative economiche legate ad aziende che hanno rapidamente cambiato il loro modo di fare affari. Oggi tra i beni più preziosi non annoveriamo più solo petrolio, diamanti e oro, ma i dati. I dati sensibili e no degli utenti sono diventati oggetto di scambio, indagini di mercato, studio e condivisione tra grandi aziende che li catalogano in enormi database che vengono poi riutilizzati nelle campagne elettorali e in quant'altro. Se da un lato l'istituzionalizzazione delle informazioni sembra essere svincolata dal vaglio dei "cavalieri" nominati per quello scopo, dall'altro la controcultura dei blog e dei canali tematici non convenzionali è essa stessa relegata a ben poca cosa. Un ruolo importantissimo è quello svolto dai Page Rank tra cui il più importante è sicuramente quello di Google. La nuova informazione non è orizzontale come si auspicava e credeva fino a un decennio fa, ma verticale. Più click hai e più ne avrai! Trovando dei risultati nella prima pagina di un motore di ricerca, il pigro internauta non si spingerà a cercare (tranne in alcuni casi) informazioni meno cliccate e presenti nelle pagine successive. Questo comporta un aumento scalabile incontrollato dei primi classificati che saranno sempre più forti e presenti. Ora il problema non è l’attendibilità di un risultato in base a parole specifiche come “Galileo Galilei”, in cui probabilmente si cercano informazioni sul grande fisico, matematico e astronomo italiano, o “sonda Galilei”, in cui si cercano informazioni sulla NASA o su Giove, o ancora “scuola Galileo Galilei Napoli” per accedere al portale dell’Istituto Superiore Partenopeo; il problema si manifesta chiaro quando si cercano argomenti generici con parole tipo “Cultura”. I risultati, a parte l’immancabile Wikipedia, sono tutti relativi a istituzioni, quotidiani, settimanali  o enciclopedie online convenzionali. Quindi cosa intendiamo per “controcultura” quando sono le CLASSIFICHE popolari a dettare le regole? Eh sì! Perché un enorme difetto è proprio questo appiattimento popolare. Basta pensare a come i quotidiani online siano MOLTO diversi da quelli cartacei. Nella trasposizione digitale dei giornali tradizionali si assiste ad un abbassamento culturale dell’agenda setting. Si parla di tutto indistintamente. Un argomento come “Il nuovo vestito di Lady Gaga” può convivere ed essere molto più cliccato di “Strage in metropolitana, 20 morti”. Questo fenomeno sta determinando un tremendo mistake tra quello che è il punto di arrivo di una società e quello che è il suo punto transitorio popolare. Gli influencer poi non rendono certo la vita facile alla cultura; sono proprio loro che smaniosi di un lavoro istituzionalizzato abbassano ulteriormente il livello delle notizie “notiziabili”. Un vero iperdiscount dell’informazione in cui i discorsi da bar sono amplificati fino a generare l’universo popolar-populistico dei “Mi piace” su Facebook o delle classificazioni, con tanto di stellette, in riviste TRAGICAMENTE prese a modello che parlano di Cinema o Musica. Classificare un film, un lavoro teatrale, un album musicale (ovviamente non prettamente commerciale ndr) è quanto di più ridicolo si possa fare con l’arte. L’arte non può essere valutata! Che emerita stronzata post “Warholiana” è quella di giudicare un quadro come “I girasoli”, un film come “Psiko”, una composizione come “La sagra della primavera” con le stellette? Ricorda tanto la puntata dei Simpson in cui ai più bravi venivano appiccicate delle agonizzate stelline di carta sul volto pur di rendere merito alla bravura.
foto Daniele Vita - GT Agency
Certe opere non sono belle o brutte! Sono più o meno importanti per l’evoluzione della società (FORSE) e non è nemmeno questo il punto. Un’opera, qualsiasi sia la sua natura, è il racconto di un artista e la sua visione del mondo in quel contesto e come tale va rispettata. Riscoprire Vivaldi nel ‘900 non è accorgersi che è stato bravo! Lo era già! È semplicemente accorgersi dell’esistenza di “qualcuno” che ha “qualcosa” da raccontare in una forma sublimata che non è parola, ma appunto arte! I media digitali stanno rovesciando governi e opinioni (e questo non è di per se un male), ma comprendere il valore del pensiero, evitare la censura (sempre pronta a condizionare e stabilire regole con muri purtroppo anche digitali), attraverso STRUMENTI e CONOSCENZE, è ben altra cosa!

Marco Brama

giovedì 28 novembre 2013

XIX CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI CINEMATOGRAFICI

“Cinema, Virtualità e Corpo”
a cura di Marco Maria Gazzano, Christian Uva e Vito Zagarrio


Si apre con le immagini polimorfe del Video “Warp” di Steina e Woody Vasulka la XIX edizione del Convegno di Studi Cinematografici di Roma Tre incentrato sul tema del “Corpo” e delle sue molteplici forme di rappresentazione. L’apertura è affidata a Giorgio De Vincenti che, in streaming video, apre con forza sulla necessità di dare la giusta dignità al cinema, spesso raccontato da quelli che definisce i “digiuni della domenica”, ovvero studiosi di altre discipline che si arrogano il diritto di spiegare, codificare ed interpretare superfici complesse come quelle del cinema, un’arte costruita dal nulla e con fatica dagli addetti ai lavori. Raimondo Guardino, citando Gadda, anticipa alcune tematiche del convegno come lo stretto rapporto tra “Immagini, media e dominio” soffermandosi sull’arduo  compito degli intellettuali di “creare” una produzione sociale. Il Vicedirettore del Dipartimento, ricordando Elio Matassi, evidenzia come il Convegno sia nato con l’intento di congiungere la filosofia alla “Comunicazione di uno spettacolo”. Marco Maria Gazzano ricorda il ruolo fondamentale degli artisti nella costruzione di un’idea e della realtà sociale, il Professor Uva prosegue sul rapporto tra “Corpo e Potere”, mentre il Professor Zagarrino chiude l’introduzione ricordando il grande Carlo Lizzani.
È l’etnometodologa Annalisa Tota ad aprire le danze con un toccante intervento sulle tematiche del Corpo nel senso di “Corpo dello Stato”, della sua forma e conseguentemente forma iconica. Mostrando le immagini del Vietnam Veterans Memorial eretto nel 1982 a Washington D.C., ha ricordato come la commemorazione dei morti impressa nel granito sia una basaltica e irremovibile montagna che ricorda la follia della guerra e stende lapidaria un velo sullo sbaglio di quel [e di qualsiasi ndr] conflitto. Anche un gesto, una fotografia possono diventare monumenti o meglio “icone” come nel caso del Cancelliere tedesco e premio nobel per la pace Willy Brandt che si inginocchia per chiedere scusa per “ un peccato” [quello della Shoa ndr], “che nessuno può cancellare”. In Italia valore simbolico altrettanto forte assume, per Annalisa Tota, l’incontro di Giorgio Napolitano con Licia Rognini e Gemma Capra a 39 anni di distanza dalla strage di Piazza Fontana. "E' assurdo che questo incontro non sia avvenuto prima", fa notare la vedova del commissario ucciso in un agguato nel '72, dopo che una campagna di stampa lo rappresentò ingiustamente come responsabile della morte di Pinelli. Considerazione, questa, pienamente condivisa dalla vedova del ferroviere anarchico, ingiustamente sospettato della strage di Piazza Fontana e che morì dopo un volo da una finestra della questura di Milano nel '69.  "Questa giornata è stata un dono di Dio, per chi come me è credente […]” Il presidente Napolitano - conclude Gemma Calabresi - ci ha dato una grande opportunità, e gliene siamo riconoscenti". Oltre alla televisione, anche il cinema contribuisce a questa costruzione del “Corpo dello Stato” attraverso film come “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana o “Diaz” di Daniele Vicari. È con gli eroi civili, però, che tutto prende forza in modo pressante come nel caso delle vittime di mafia. La testimonianza intensa e indimenticabile di Rosaria Costa chiude il cerchio; qui, con i corpi dei defunti è compiutamente creato il Corpo dello Stato.
L’intervento di Enrico Menduni mostra come l’agiografia del potere e la sua critica si intrecciano. Mostrando dei brevi spezzoni dell’arrivo di Hitler a Roma nel 1938 alla stazione Ostiense, dei saluti con Mussolini, la sfilata lungo i fori imperiali, la satira intelligente e immortale de “Il grande dittatore” di Sir Charles Spencer Chaplin, Menduni parla di un processo in cui l’intermedialità è ogni giorno più forte e interconessa. I grandi eventi del passato, se si fossero “manifestati” nell’epoca del World Wide Web, avrebbero generato scie di filmati di cronaca, satira e complottismo mostrando tutto e il contrario di tutto come nell’episodio del 13 dicembre 2009 in cui l’allora premier Silvio Berlusconi venne colpito in volto da un “attentatore” con una statuetta del Duomo di Milano. Giacomo Manzoli parla del corpo dell’uomo, in particolare dell’uomo politico. Ne “La voce di Berlinguer” di Sesti e Teardo, film breve di montaggio dal linguaggio polisemico, Manzoli fa una breve analisi di questo lavoro carico di emozionalità mettendo in luce come l’apparente naturalezza di Berlinguer sia il risultato di una particolare relazione tra voce, immagine, senso del discorso e testo. Abbracciando dimensioni emotive, utopico-oniriche e artistiche il film, distribuito nei circuiti tradizionali, raggiunge l’obbiettivo specifico di enunciare un corpo fisico che assurge a corpo sociale in una rielaborazione storico-sociologica del lutto di un uomo e della sua idea. Il semiologo Paolo Fabbri fa un intervento acuto e brillante prendendo a modello della sua metafora sulla società occidentale, gli “zombies” non solo cinematografici. I non morti, o non vivi, non sono gli altri, ma noi “o voi”. Rimandando ad un’ipotetica e quasi necessaria quarta persona plurale Fabbri  racconta il mondo del riflesso, dell’onirico, citando tra i tanti Kurosawa e le sue armate in “Sogni”; i suoi eserciti che risvegliano antichi e nuovi timori come quello, tutto contemporaneo, delle pandemie auto inflitte in cui i virus contagiano tutti. Virus informatici e non solo; soprattutto “comunicazioni virali” in cui lo spettatore è zombie egli stesso. I morti come “scoria” e non come storia.  Un passato purtroppo spesso dimenticato insieme alla diametralmente opposta e allo stesso tempo conseguente visione del futuro. Maurizia Natali in quelle che definisce tre “iconosfere” affronta il tema del “Corpo delle donne” nella società contemporanea italiana. Partendo dall’analisi di libro del 2009 scritto da Lorella Zanardo, appunto intitolato “Il Corpo delle donne”, la Professoressa Maurizia Natali affronta, senza troppe parafrasi, quella che viene definita l’allegoria della “pornocrazia” italiana. La figura femminile nella televisione italiana degli ultimi 25/30 anni è “disegnata” in modo umiliante e disumanizzante come carne da consumare, tanto da diventare una “donna prosciutto” appesa insieme a corpi di animali macellati in una trasmissione televisiva e non solo; il mondo delle bambole di plastica femminili incarnate in veline, meteorine, presentatrici scollate, ballerine ancheggianti culmina nell’agghiacciante, ma non sorprendente, caso delle “neo lolitine” romane. Viene affrontato il problema del genere sessuale nella società italiana, lungi dall’essere risolto con i suoi ritardi e le sue disuguaglianze; anche il cinema, secondo la Dottoressa, non è avulso a queste tematiche che già, anche se talvolta con obiettivi radicalmente opposti, anticipava in stilemi di “femmine oggetto” come le donne ultra formose di Fellini o certi personaggi spudorati e inquietanti narrati da Pasolini [“Salò o le 120 giornate di Sodoma” ndr].
La Dottoressa Lucilla Albano “prosegue” (le tematiche dei personaggi inquietanti di Pasolini), parlando del “perturbante” ovvero, dell’Unheimlich, cioè una particolare attitudine del sentimento più generico della paura, che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando generica angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità. Lo fa attraverso  una breve, ma attenta analisi della filmografia, soprattutto recente, di Pedro Almodóvar. I personaggi almodovariani sono specchio delle inquietudini del tempo presente; un tempo “egoista” come molti dei rapporti “amorosi” descritti dal regista; in effetti in queste unioni interpersonali manca la relazione e quasi sempre si comunica il “godimento dell’uno”. Quelli raccontati dal regista spagnolo sono rapporti non convenzionali, che mettono in discussione convinzioni e abitudini e lo fanno attraverso la narrazione del sadismo, del masochismo mediante ambientazioni o atmosfere gotiche in cui il corpo è solo una “pelle stretta” in cui vivere per dono o disgrazia divina. Il piacere, l’orgasmo, l’orgasmo supremo, la morte in un indissolubile intreccio tra “Eros e Thanatos” sembrano permeare tutta la più recente filmografia di Almodovar in un sinistro spaesamento che mette a nudo perversioni e debolezze umane senza mai cadere nel trash, in una carezza finale [che tanto ricorda l’immagine del ragazzino che carezza l’impalpabile volto della madre nel sublime e inquietante capolavoro di Bergman “Persona” ndr] che è profondamente dolorosa e sola.
Il professor Carocci, attraverso la figura del corpo della diva Kerima, affronta il tema dell’interculturalità del e nel ruolo “istituzionale” e tutto iconico del cinema americano nel secondo dopoguerra. Un cinema che maschera il suo controllo sociale mediante le storie, spesso inventate, dei suoi interpreti. Mutamenti iconografici tra pre e post-colonialismo, tra gusto e timore per l’esotico, tra accettazione e rifiuto delle “nuove” culture degli immigrati del ‘900. Il cambio di identità, il razzismo, il tema del “perenne straniero” near black che ancora oggi permea il tessuto narrativo di molto cinema di propaganda “mascherata” statunitense. Vito Zagarrio illustra il personaggio di Divine nel cinema di John Waters. Il regista statunitense noto per il suo carattere dissacratorio e provocatorio, critica da sempre la Way of life americana. L’incontro con un coetaneo del suo quartiere, il grassoccio Harris Glenn Milstead che ama travestirsi da donna, sarà il punto di partenza per la nascita di Divine della Dreamland Production che vedrà il suo esordio cinematografico in “Eat your makeup”. La pellicola, che narra il sadismo di un uomo che costringe le modelle a sfilare fino alla morte, è solo il punto di partenza di una collaborazione sicuramente fuori dagli schemi e dai cliché. “Pink Flamingos” del 1972 crea scandalo e clamore (soprattutto per la scena in cui Divine mangia veri escrementi di cane) e dà a Waters la spinta per proseguire. I lavori successivi diventano meno estremi e quindi più “digeribili” dal grande pubblico, ma conservando sempre elementi originali. Innovativa ad esempio l’idea dei biglietti “Odorama” che grattati durante la proiezione del film fanno sentire gli odori di oggetti e secrezioni corporee. Nonostante questo “ammorbidimento” l’opera di Waters e il suo trash meta filmico, restano importanti soprattutto a livello concettuale in quanto si scontrano con la società borghese americana, la sua sessuofobia e il suo finto perbenismo. Prosegue e chiude la giornata la proiezione di “Sangue” di Pippo del Bono, una preghiera cinematografica sulla dissoluzione del corpo sia fisico che dello stato, una dissoluzione fatta di resistenze necessarie e sofferte incarnate dai protagonisti.
Nella seconda giornata si finisce nella “Babel” hollywoodiana e i temi si spostano su quella che viene definita forse un po’ arbitrariamente “nuova narrazione”.Warren Buckland inizia con l’analisi del film “Source Code” in cui l’intreccio tra cinema e mondo video ludico si fa stringente. Le nuove tecnologie digitali influenzano la rappresentazione cinematografica grazie alle peculiarità dei videogames facendo sì che l’estetica, la serialità e gli avatar dei videogiochi permeino il tessuto estetico-narrativo filmico. [la stessa tecnica narrativa è però presente in molti film antecedenti; mi permetto di citare su tutti “Lola Rennt”, film del 1998 di Tom Tykwer. Nel film, diventato simbolo della nuova Deutsch Kino - almeno in patria – mostra caratteristiche proprie dei videogames come la serialità temporale, i “livelli di apprendimento” del protagonista, i “game over” con conseguenti disequilibri narrativi visibili anche nelle trasposizioni animate. Ricordando come la protagonista rimandi alle corse interminabili di Lara Croft nel videogioco del 1996 “Tomb Raider”, ritengo che il film sia stato concepito e presentato forse troppo in anticipo tanto da non essere capito da molti critici come in Italia, in cui Irene Bignardi su “La Repubblica” lo definì sbrigativamente per lo meno “bizzarro e furbo” ndr]
Paolo Bertetto interviene sul concetto di “Fantasmagoria” applicandolo alla merce partendo dai “Passagen-Werk” di Walter Benjamin. L’immagine fantasmagorica nella società si svela nell’istanza di autopresentazione, nella capacità di intercettare il desiderio nella presentazione della merce. Esaltazione e godimento alienato, artificiale e alterato in un mercato del desiderio. Una società capitalistica in cui le luci di Las Vegas sono l’estremizzazione del prodotto di consumo. Un mondo che è “replica” desiderabile esso stesso, seduttore e sedotto nella città fantasma di “Blade Runner” di Ridley Scott, nei piaceri fittizi di Strange Days di Kathryn Bigelow, nel gusto dell’autoinganno della storia artefatta di “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino o ancora nello spettacolare affresco visivo di “Avatar” di James Cameron. Paolo Russo riprende le tematiche della Nuova Narrazione parlando dei Puzzle Film. Nello studio minuzioso ed estremamente tecnicista di “Inception di Christopher Nolan, il ricercatore spiega come il modello Vogler Christoper sia troppo stretto per questa plot line e per quelle dei Puzzle film in generale. Sintetizza 5 livelli narrativi sovrapposti [ma comunque alternati seppur in modo apparentemente informe ndr] in cui sono presenti nuove macrostrutture e numerosi frame work cognitivi con incastri temporali diegetici estranianti [ma in tema con quella che potrebbe essere la nascita di un media franchise con tanti possibili prequel, sequel, spin-off e storie alternative che chiariscano la trama principale, confezionate con cura in futuro ndr]
Leonardo Gandini continua sulle tematiche dei puzzle film paragonandoli ai quadri di Escher. Un inscatolamento anomalo che mette in difficoltà lo spettatore disorientandolo nella comprensione deontologica del testo. Si crea un labirinto narrativo da interpretare con molti “manuali d’uso”. Questo mosaico fa da lancio a Vito Zagarrio che inserisce nel contesto la serie televisiva “Tounch” e il film “Ender’s game” mettendo in risalto elementi comuni come: un protagonista bambino [target “prescelto” a cui destinare il prodotto ndr] il sogno, il mondo dei videogiochi, il mondo virtuale [i nemici ndr], in una narrazione ad incastri [che rimanda agli spin off web come “Daybreak” – “Touch” – rivolto sempre ai giovani internauti ndr]. Il dibattito aperto da Veronica Pravatelli mette in luce come sono numerosi i punti di rimando di questi puzzle film; l’origine va ricercata molto più indetro, nei lavori di Luis Bunuel, Alain Resnais e in molti lavori del dopoguerra che utilizzano tecniche narrative non convenzionali con la presenza di elementi seriali, digressioni temporali, specchi e  “breacking elements”. In fondo, mi permetto di aggiungere, il cinema è arte nuova e “nonostante tutto” un’arte! Per cui rotture del linguaggio, per altro non nuove o isolate, non devono essere necessariamente codificate e diventare esse stesse “seriali”, a volte è proprio il tempo reale, non quello diegetico, a spiegare tutto. Un focus di Giacomo Marramao sul “doppio corpo del potere” e la proiezione di “L’Africa di Pasolini” di Gianni Borgna ed Enrico Menduni con i successivi interventi di Mario Panizza (Rettore dell’Università di Roma Tre), Nicola Borrelli (MiBAC – Direttore Generale per il Cinema), Roberto Cicutto (Amministratore Delegato Istituto Luce – Cinecttà) e Andrea Vianello (Direttore Rai Tre) ci ricordano quanto prestigioso sia diventato questo Convegno giunto alla sua 19ma edizione. L’omaggio a Carlo Lizzani con ospiti il figlio Francesco, Giuliano Montaldo, Giuliana De Sio e varie testimonianze inframezzate dalle proiezioni di “Carlo Lizzani, cineasta multitasking” di Vito Zagarrio, e “La canzone di Carlo” di Paolo Di Nicola chiudono la giornata del 27 novembre.
La trasformazione del corpo fisico diventa essenza della percezione. Thomas Elsaessen scompone il rapporto della percezione “fisica” classica con le trasposizioni cinematografiche visibili in “Avatar” di James Cameron, “Vita di Pi” di Ang Lee e “Gravity” di Alfonso Cuarón in cui il disorientamento spaziale creato mediante l’uso massiccio della grafica creata con l’elaboratore è posizione di base. L’uomo/natura diventa via via uomo/macchina in un rapporto sublimato da un’estetica matematico-kantiana dove la supremazia visiva è dinamica e toglie le “gabbie” riportando la paura per la natura selvaggia [la tigre ndr] in un mistake irrisolvibile tra ragione e abbandono all’immaginazione, tra vita come la conosciamo e “nuovo” essere. John Jost, attraverso una breve, ma significativa digressione nel passato, anatomizza i mutamenti delle forme corporee nella cultura occidentale. Tra evoluzioni e involuzioni cicliche il ricercatore sottolinea come la prospettiva nelle rappresentazioni artistiche sia rimasta invariata dal rinascimento in poi. Oggi, la disponibilità di recenti strumenti e nuovi punti di osservazione dovrebbero portare a mutate rappresentazioni del reale, ma non è così. L’illusione della virtualità non ha cambiato l’atteggiamento umano nei confronti del mondo, l’uomo è ancora  relegato in una caverna platonica espansa nella quale non è filtrato il raggio che ha permesso alla Phronesis di germogliare. Questa artefatta costruzione prettamente estetica del mondo attraverso l’illusione del virtuale offusca la vista; essere uomo “sapius” e non solo sapiens sembra prerogativa solo degli artisti che osservano e raccontano il mondo e il suo, chissà, evitabile declino verso l’autoimplosione. Giulio Latini affronta il tema delle nuove tecnologie e della risoluzione temporale nel cinema tridimensionale. Nuove apparecchiature e tecniche per il videomaking  stanno potenziando il digitale [che ancora subisce la supremazia visuale dell’analogico soprattutto nella resa cromatica ndr] con un consistente aumento dei dettagli spazio temporali, mediante l’accresciuta risoluzione e il quasi triplicato frame rate. Questo è visibile nelle più recenti produzioni cinematografiche come “Gravity” che si avvalgono di accorgimenti sempre più sofisticati che abbracciano anche il mondo sonoro attraverso evoluzioni che porteranno in pochi anni all’olografia totale. [quella sonora è già esistente e funzionante ndr] Riprende e approfondisce il discorso Enrico Carocci che si occupa di “Gravity” analizzandone, attraverso 4 schemi, la trama che il ricercatore reputa sì minimale, ma solida. Prendendo spunto da Jaak Panksepp sottolinea come il 3D rende vivido l’ambiente e stimola l’attivazione di sistemi emotivi primitivi in cui il cervello genera mappe corporee anche in assenza di gravità. La Professoressa Maria Perrota parla del corpo nelle rappresentazioni televisive di reality show come “Extreme Make Over Edition” e “Grassi contro magri”. In questi format si manifesta il potere della metamorfosi, la trasformazione che è rivelazione dello spettacolo. Emerge forte, in questo mondo “mutante” fatto di medici e coach, l’adeguarsi dei protagonisti ai canoni del “bello” contemporaneo. Lo specchio, in cui i protagonisti si guardano al termine della “mutazione”, è il riflesso del trovare se stessi mediante un’evoluzione faticosa dove le secrezioni corporee sono fluidi in ampolle di industrial design ottenute in un laboratorio neoliberista in cui sottomettersi all’idea dell’estetica dominante. Raimondo Guardino introduce il tema dell’immagine eterea e poi è un susseguirsi di riflessioni che spostano l’attenzione sul teatro e la deformazione del corpo come quella in Riccardo III. Il movimento sulle punte di Vaclav Fomič Nižinskij in una danza angolare e carica di sensualità è argomento di Concetta Lo Iacono; Samanta Marenzi si sofferma su “Corpo, spirito e immagine” attraverso il kamaitachi di Eikoh Hosoe e Tastusmi Hijikata; Paolo Ruffini racconta di corpi in transito nei territori della resistenza e della resilienza; Maia Giacobbe Borelli “affronta” un corpo a corpo tra Artand e la virtualità nel manifesto per un teatro abortito mentre una “cinepresa cerebrale” si muove nel “teatro” di Carlo Quartucci e Carla Tatò. Chiudono il convegno le proiezioni di “Quadri espansi. La formazione nel cinema italiano” di Francesco Crispino e “La Lunga Ombra” di John Jost.
Il convegno ha mostrato quanto il mondo dell’arte, del cinema, della danza e del teatro, la loro produzione e codifica siano vivi e resistano alle crisi; anzi, sono forse proprio le “opportunità insite nelle crisi” che rendono più forte l’uomo e la sua arte. Rimandando alla XX edizione del Convegno, che qualcuno ha simpaticamente pre-battezzato “XX Congresso”, i protagonisti mettono un altro piccolo, ma importante tassello nella Fabbrica della Conoscenza in un’Italia che dopo il 27 novembre può immaginarsi e ritrovarsi speciale nel Multiverso della creatività, ricominciando a scrivere pagine di cultura per riempire il bagaglio della conoscenza con cui viaggiare nel mondo.
Marco Brama

lunedì 18 novembre 2013

Erik Satie - Parade e Gymnopédie No.1

Satie, unico membro della Chiesa Metropolitana d’Arte da lui stesso fondata, è uno dei personaggi più innovativi della musica di tutti i tempi. Snobbato dai suoi professori forma la sua esperienza nella Parigi prolifica di inizio ‘900. Fidanzato con la bellissima pittrice Suzanne Valadon,  prima donna ad entrare nella Société Nationale des Beaux-Arts, fu amico di Jean Cocteau e Pablo Picasso con i quali scriverà e realizzerà il balletto “Parade” (a cui rende omaggio addirittura Prince nel suo album capolavoro appunto “Parade” in cui l'essenzialità, il bianco e nero, l'ambientazione parigina stanno alla base dell'arrangiamento) e diventerà uno dei principali animatori del “Gruppo dei sei” (i grandi musicisti Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey che erediteranno proprio l’arte e le innovazioni di Satie). Eric è un innovatore antiaccademico che vuole ridonare dignità a tutte le espressioni musicali mostrando come l’accademicismo con le sue regole sia l’assassino della creatività.  Definisce le musiche composte in questo periodo come “Musica da Tappezzeria”, una musica “satirica” contro la musica “dotta”. La scrittura musicale di Satie è originalissima; nel balletto di ispirazione cubista "Parade", ad esempio, usa suoni molto innovativi come sirene, macchine da scrivere e altri "rumori" mai utilizzati prima; la stesura delle partiture non è minimamente inquadrabile nei generi conosciuti, tra tutti le celebri Gymnopédie e Gnossienne. Le sue continue sperimentazioni lo portano a inventare di fatto la tecnica del piano preparato inserendo per la prima volta oggetti nella cassa armonica dello strumento nella sua opera "Le Piège de Méduse" e si cimenta nel primo vero Loop/Groove della storia il brano più lungo mai scritto, "Vexations", composto da trentacinque battute ripetute 840 volte per una durata approssimativa di venti ore. La sua musica ispirerà tutto il movimento Ambient che ancora oggi prosegue la sua ricerca nelle varie forme ed espressioni musicali che vanno dal Chillout alla Minimal ispirando musicisti come Terry Riley e Philip Glass, e Brian Eno. Non bisogna dimostrare nulla, bisogna solo sentire la musica, la sua anima, le sue vibrazioni, le sue proporzioni matematiche sono una conseguenza della percezione acustica umana. Gymnopédie e Parade sono questo: pura arte.



domenica 17 novembre 2013

Edvard Munch - Il grido

« Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. » Così Munch parla de "L'urlo", uno dei quadri più noti della storia dell'arte, tanto da essere spesso tralasciato, dato per scontato: un'icona finita. In realtà il dipindo offre spunti di analisi molto complesse e per niente scontate. Partiamo dalla Norvegia, un luogo periferico, lontano dai fermenti creativi di un epoca in grande evoluzione. Dopo il 1850 l'Europa vive quella che viene definita la primavera dei popoli, la presa di coscenza delle masse, lo sviluppo industriale, l'intensificazione dei commerci. L'Inghilterra, Francia, la Germania, l'Austria e la Russia, anche se in modi diversi e con risultati spesso incompatibili, stanno uscendo dal limbo settecentesco e si avviano verso un futuro intriso di novità e rivoluzioni. Munch si trova lontano dai centri nevralgici e artistici europei. La sua Norvegia esce da poco (1814) dalla dominazione danese ed è sotto il controllo svedese che durerà fino all'indipendenza del 1905. La sua è una terra affascinante, ricca di contrasti, dove la natura selvaggia si mostra potente e sovrumana. Munch si sente piccolo di fronte a questa natura gigantesca che urla in silenzio la sua maestosità. E lui è lì, in mezzo al silenzio di un creato enorme e pervasivo, lontano dal resto del mondo. La sua angoscia, il suo richiamare l'attenzione invano, il suo cercare di comunicare la sua angoscia e la sua finitezza umana lo portano a raccontare se stesso attraverso i colori. Un precursore dell'espressionismo che da "Il grido" (nelle sue varie versioni) prende spunto per  il progetto “Il Fregio della vita” (1893-1918) composta da numerose tele elaborate secondo quattro temi fondamentali: Il risveglio dell’amore, L’amore che fiorisce e passa, Paura di vivere, di cui fa parte Il Grido, e La Morte. Ma si arriva all'urlo attraverso il narrare quel luogo specifico, quella balaustra affacciata sul fiordo in molte tele. Quel luogo speciale, lontano dai rumori della città in un anfiteatro naturale che affaccia sul mare. Il pittore spettatore e protagonista del quadro.

Il dipinto Dispeir del 1892 ci mostra questo luogo speciale. Un pontile, un bel vedere che offre una visione dall'alto di un fiordo. Il paesaggio è un vortice sanguigno e tumefatto che si confonde in una spirale che sembra avvolgere tutto. Munch è lì, in silenzio, in disparte, lontano dai suoi due "amici" borghesi che si allontanano indefferenti a lui e alla natura. La lingua del fiordo è silente alla disperazione del pittore. Questo luogo tornerà ancora più emaciato e delirante nel grido del 1893. La figura è devastata e pervasa dall'orrore, dalla paura, le sue forme si confondono con il roteare della spirale paesaggistica come a sottolineare che in fondo anche l'uomo è natura, ma è una natura persa, che non sa più quale è il suo posto, forse uno spettatore ... ma nemmeno. Il protagonista è in soggettiva, guarda l'astante, noi che osserviamo la tela, ed è questo gioco a spiegare il tutto. Io guardo te, mentre te osservi me, come se Munch fosse all'interno del dipinto e osservasse per sempre gli "spettatori". Ora ne "Il grido" la natura è ancora più cosmica, e avvolge tutto partendo dal basso della terra con una lingua serpentiforme che si perde nel fiordo; un occhio gigante e senza pupilla si staglia a sinistra nel cielo e controlla in silenzio la scena. La società è sempre lì, ancora più in disparte e sempre indifferente al grido dell'artista il cui volto è quasi un teschio. I colori della pelle rimandano alla decomposizione della carne, alla morte inevitabile.     

Nel 1892 Munch ci presenta in "Sera sulla via Karl Johan" una folla inquietante e curiosa che osserva e non parla. Una folla ben vestita, integrata, efficente, ma anonima. I volti tendono a confondersi, a diventare puntini spersi in una strada che è il pontile della città. La natura è più in disparte, ma ricorda la sua presenza nella roccia irta e gigantesca che incombe sull'opera dell'uomo. Siamo noi che guardiamo il quadro o sono loro che ci osservano? La prospettiva in soggettiva della folla è ancora più inquietante.

È infine in "Anxiety" del 1894 che si chiude il cerchio. Torna il paesaggio de "Il grido", la natura è ancora più difforme ed emblematica, nel cielo una fenice rossa ricorda la potenza degli elementi. L'uomo è lì, sul pontile, in soggettiva che osserva silente e insensibile il pittore. Una folla che diventa via via informe,  ectoplasmatica. Sullo sfondo le sagome della città ... forse ... e le immancabili navi che potrebbero portare Edvard lontano da lì.