giovedì 28 novembre 2013

XIX CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI CINEMATOGRAFICI

“Cinema, Virtualità e Corpo”
a cura di Marco Maria Gazzano, Christian Uva e Vito Zagarrio


Si apre con le immagini polimorfe del Video “Warp” di Steina e Woody Vasulka la XIX edizione del Convegno di Studi Cinematografici di Roma Tre incentrato sul tema del “Corpo” e delle sue molteplici forme di rappresentazione. L’apertura è affidata a Giorgio De Vincenti che, in streaming video, apre con forza sulla necessità di dare la giusta dignità al cinema, spesso raccontato da quelli che definisce i “digiuni della domenica”, ovvero studiosi di altre discipline che si arrogano il diritto di spiegare, codificare ed interpretare superfici complesse come quelle del cinema, un’arte costruita dal nulla e con fatica dagli addetti ai lavori. Raimondo Guardino, citando Gadda, anticipa alcune tematiche del convegno come lo stretto rapporto tra “Immagini, media e dominio” soffermandosi sull’arduo  compito degli intellettuali di “creare” una produzione sociale. Il Vicedirettore del Dipartimento, ricordando Elio Matassi, evidenzia come il Convegno sia nato con l’intento di congiungere la filosofia alla “Comunicazione di uno spettacolo”. Marco Maria Gazzano ricorda il ruolo fondamentale degli artisti nella costruzione di un’idea e della realtà sociale, il Professor Uva prosegue sul rapporto tra “Corpo e Potere”, mentre il Professor Zagarrino chiude l’introduzione ricordando il grande Carlo Lizzani.
È l’etnometodologa Annalisa Tota ad aprire le danze con un toccante intervento sulle tematiche del Corpo nel senso di “Corpo dello Stato”, della sua forma e conseguentemente forma iconica. Mostrando le immagini del Vietnam Veterans Memorial eretto nel 1982 a Washington D.C., ha ricordato come la commemorazione dei morti impressa nel granito sia una basaltica e irremovibile montagna che ricorda la follia della guerra e stende lapidaria un velo sullo sbaglio di quel [e di qualsiasi ndr] conflitto. Anche un gesto, una fotografia possono diventare monumenti o meglio “icone” come nel caso del Cancelliere tedesco e premio nobel per la pace Willy Brandt che si inginocchia per chiedere scusa per “ un peccato” [quello della Shoa ndr], “che nessuno può cancellare”. In Italia valore simbolico altrettanto forte assume, per Annalisa Tota, l’incontro di Giorgio Napolitano con Licia Rognini e Gemma Capra a 39 anni di distanza dalla strage di Piazza Fontana. "E' assurdo che questo incontro non sia avvenuto prima", fa notare la vedova del commissario ucciso in un agguato nel '72, dopo che una campagna di stampa lo rappresentò ingiustamente come responsabile della morte di Pinelli. Considerazione, questa, pienamente condivisa dalla vedova del ferroviere anarchico, ingiustamente sospettato della strage di Piazza Fontana e che morì dopo un volo da una finestra della questura di Milano nel '69.  "Questa giornata è stata un dono di Dio, per chi come me è credente […]” Il presidente Napolitano - conclude Gemma Calabresi - ci ha dato una grande opportunità, e gliene siamo riconoscenti". Oltre alla televisione, anche il cinema contribuisce a questa costruzione del “Corpo dello Stato” attraverso film come “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana o “Diaz” di Daniele Vicari. È con gli eroi civili, però, che tutto prende forza in modo pressante come nel caso delle vittime di mafia. La testimonianza intensa e indimenticabile di Rosaria Costa chiude il cerchio; qui, con i corpi dei defunti è compiutamente creato il Corpo dello Stato.
L’intervento di Enrico Menduni mostra come l’agiografia del potere e la sua critica si intrecciano. Mostrando dei brevi spezzoni dell’arrivo di Hitler a Roma nel 1938 alla stazione Ostiense, dei saluti con Mussolini, la sfilata lungo i fori imperiali, la satira intelligente e immortale de “Il grande dittatore” di Sir Charles Spencer Chaplin, Menduni parla di un processo in cui l’intermedialità è ogni giorno più forte e interconessa. I grandi eventi del passato, se si fossero “manifestati” nell’epoca del World Wide Web, avrebbero generato scie di filmati di cronaca, satira e complottismo mostrando tutto e il contrario di tutto come nell’episodio del 13 dicembre 2009 in cui l’allora premier Silvio Berlusconi venne colpito in volto da un “attentatore” con una statuetta del Duomo di Milano. Giacomo Manzoli parla del corpo dell’uomo, in particolare dell’uomo politico. Ne “La voce di Berlinguer” di Sesti e Teardo, film breve di montaggio dal linguaggio polisemico, Manzoli fa una breve analisi di questo lavoro carico di emozionalità mettendo in luce come l’apparente naturalezza di Berlinguer sia il risultato di una particolare relazione tra voce, immagine, senso del discorso e testo. Abbracciando dimensioni emotive, utopico-oniriche e artistiche il film, distribuito nei circuiti tradizionali, raggiunge l’obbiettivo specifico di enunciare un corpo fisico che assurge a corpo sociale in una rielaborazione storico-sociologica del lutto di un uomo e della sua idea. Il semiologo Paolo Fabbri fa un intervento acuto e brillante prendendo a modello della sua metafora sulla società occidentale, gli “zombies” non solo cinematografici. I non morti, o non vivi, non sono gli altri, ma noi “o voi”. Rimandando ad un’ipotetica e quasi necessaria quarta persona plurale Fabbri  racconta il mondo del riflesso, dell’onirico, citando tra i tanti Kurosawa e le sue armate in “Sogni”; i suoi eserciti che risvegliano antichi e nuovi timori come quello, tutto contemporaneo, delle pandemie auto inflitte in cui i virus contagiano tutti. Virus informatici e non solo; soprattutto “comunicazioni virali” in cui lo spettatore è zombie egli stesso. I morti come “scoria” e non come storia.  Un passato purtroppo spesso dimenticato insieme alla diametralmente opposta e allo stesso tempo conseguente visione del futuro. Maurizia Natali in quelle che definisce tre “iconosfere” affronta il tema del “Corpo delle donne” nella società contemporanea italiana. Partendo dall’analisi di libro del 2009 scritto da Lorella Zanardo, appunto intitolato “Il Corpo delle donne”, la Professoressa Maurizia Natali affronta, senza troppe parafrasi, quella che viene definita l’allegoria della “pornocrazia” italiana. La figura femminile nella televisione italiana degli ultimi 25/30 anni è “disegnata” in modo umiliante e disumanizzante come carne da consumare, tanto da diventare una “donna prosciutto” appesa insieme a corpi di animali macellati in una trasmissione televisiva e non solo; il mondo delle bambole di plastica femminili incarnate in veline, meteorine, presentatrici scollate, ballerine ancheggianti culmina nell’agghiacciante, ma non sorprendente, caso delle “neo lolitine” romane. Viene affrontato il problema del genere sessuale nella società italiana, lungi dall’essere risolto con i suoi ritardi e le sue disuguaglianze; anche il cinema, secondo la Dottoressa, non è avulso a queste tematiche che già, anche se talvolta con obiettivi radicalmente opposti, anticipava in stilemi di “femmine oggetto” come le donne ultra formose di Fellini o certi personaggi spudorati e inquietanti narrati da Pasolini [“Salò o le 120 giornate di Sodoma” ndr].
La Dottoressa Lucilla Albano “prosegue” (le tematiche dei personaggi inquietanti di Pasolini), parlando del “perturbante” ovvero, dell’Unheimlich, cioè una particolare attitudine del sentimento più generico della paura, che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando generica angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità. Lo fa attraverso  una breve, ma attenta analisi della filmografia, soprattutto recente, di Pedro Almodóvar. I personaggi almodovariani sono specchio delle inquietudini del tempo presente; un tempo “egoista” come molti dei rapporti “amorosi” descritti dal regista; in effetti in queste unioni interpersonali manca la relazione e quasi sempre si comunica il “godimento dell’uno”. Quelli raccontati dal regista spagnolo sono rapporti non convenzionali, che mettono in discussione convinzioni e abitudini e lo fanno attraverso la narrazione del sadismo, del masochismo mediante ambientazioni o atmosfere gotiche in cui il corpo è solo una “pelle stretta” in cui vivere per dono o disgrazia divina. Il piacere, l’orgasmo, l’orgasmo supremo, la morte in un indissolubile intreccio tra “Eros e Thanatos” sembrano permeare tutta la più recente filmografia di Almodovar in un sinistro spaesamento che mette a nudo perversioni e debolezze umane senza mai cadere nel trash, in una carezza finale [che tanto ricorda l’immagine del ragazzino che carezza l’impalpabile volto della madre nel sublime e inquietante capolavoro di Bergman “Persona” ndr] che è profondamente dolorosa e sola.
Il professor Carocci, attraverso la figura del corpo della diva Kerima, affronta il tema dell’interculturalità del e nel ruolo “istituzionale” e tutto iconico del cinema americano nel secondo dopoguerra. Un cinema che maschera il suo controllo sociale mediante le storie, spesso inventate, dei suoi interpreti. Mutamenti iconografici tra pre e post-colonialismo, tra gusto e timore per l’esotico, tra accettazione e rifiuto delle “nuove” culture degli immigrati del ‘900. Il cambio di identità, il razzismo, il tema del “perenne straniero” near black che ancora oggi permea il tessuto narrativo di molto cinema di propaganda “mascherata” statunitense. Vito Zagarrio illustra il personaggio di Divine nel cinema di John Waters. Il regista statunitense noto per il suo carattere dissacratorio e provocatorio, critica da sempre la Way of life americana. L’incontro con un coetaneo del suo quartiere, il grassoccio Harris Glenn Milstead che ama travestirsi da donna, sarà il punto di partenza per la nascita di Divine della Dreamland Production che vedrà il suo esordio cinematografico in “Eat your makeup”. La pellicola, che narra il sadismo di un uomo che costringe le modelle a sfilare fino alla morte, è solo il punto di partenza di una collaborazione sicuramente fuori dagli schemi e dai cliché. “Pink Flamingos” del 1972 crea scandalo e clamore (soprattutto per la scena in cui Divine mangia veri escrementi di cane) e dà a Waters la spinta per proseguire. I lavori successivi diventano meno estremi e quindi più “digeribili” dal grande pubblico, ma conservando sempre elementi originali. Innovativa ad esempio l’idea dei biglietti “Odorama” che grattati durante la proiezione del film fanno sentire gli odori di oggetti e secrezioni corporee. Nonostante questo “ammorbidimento” l’opera di Waters e il suo trash meta filmico, restano importanti soprattutto a livello concettuale in quanto si scontrano con la società borghese americana, la sua sessuofobia e il suo finto perbenismo. Prosegue e chiude la giornata la proiezione di “Sangue” di Pippo del Bono, una preghiera cinematografica sulla dissoluzione del corpo sia fisico che dello stato, una dissoluzione fatta di resistenze necessarie e sofferte incarnate dai protagonisti.
Nella seconda giornata si finisce nella “Babel” hollywoodiana e i temi si spostano su quella che viene definita forse un po’ arbitrariamente “nuova narrazione”.Warren Buckland inizia con l’analisi del film “Source Code” in cui l’intreccio tra cinema e mondo video ludico si fa stringente. Le nuove tecnologie digitali influenzano la rappresentazione cinematografica grazie alle peculiarità dei videogames facendo sì che l’estetica, la serialità e gli avatar dei videogiochi permeino il tessuto estetico-narrativo filmico. [la stessa tecnica narrativa è però presente in molti film antecedenti; mi permetto di citare su tutti “Lola Rennt”, film del 1998 di Tom Tykwer. Nel film, diventato simbolo della nuova Deutsch Kino - almeno in patria – mostra caratteristiche proprie dei videogames come la serialità temporale, i “livelli di apprendimento” del protagonista, i “game over” con conseguenti disequilibri narrativi visibili anche nelle trasposizioni animate. Ricordando come la protagonista rimandi alle corse interminabili di Lara Croft nel videogioco del 1996 “Tomb Raider”, ritengo che il film sia stato concepito e presentato forse troppo in anticipo tanto da non essere capito da molti critici come in Italia, in cui Irene Bignardi su “La Repubblica” lo definì sbrigativamente per lo meno “bizzarro e furbo” ndr]
Paolo Bertetto interviene sul concetto di “Fantasmagoria” applicandolo alla merce partendo dai “Passagen-Werk” di Walter Benjamin. L’immagine fantasmagorica nella società si svela nell’istanza di autopresentazione, nella capacità di intercettare il desiderio nella presentazione della merce. Esaltazione e godimento alienato, artificiale e alterato in un mercato del desiderio. Una società capitalistica in cui le luci di Las Vegas sono l’estremizzazione del prodotto di consumo. Un mondo che è “replica” desiderabile esso stesso, seduttore e sedotto nella città fantasma di “Blade Runner” di Ridley Scott, nei piaceri fittizi di Strange Days di Kathryn Bigelow, nel gusto dell’autoinganno della storia artefatta di “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino o ancora nello spettacolare affresco visivo di “Avatar” di James Cameron. Paolo Russo riprende le tematiche della Nuova Narrazione parlando dei Puzzle Film. Nello studio minuzioso ed estremamente tecnicista di “Inception di Christopher Nolan, il ricercatore spiega come il modello Vogler Christoper sia troppo stretto per questa plot line e per quelle dei Puzzle film in generale. Sintetizza 5 livelli narrativi sovrapposti [ma comunque alternati seppur in modo apparentemente informe ndr] in cui sono presenti nuove macrostrutture e numerosi frame work cognitivi con incastri temporali diegetici estranianti [ma in tema con quella che potrebbe essere la nascita di un media franchise con tanti possibili prequel, sequel, spin-off e storie alternative che chiariscano la trama principale, confezionate con cura in futuro ndr]
Leonardo Gandini continua sulle tematiche dei puzzle film paragonandoli ai quadri di Escher. Un inscatolamento anomalo che mette in difficoltà lo spettatore disorientandolo nella comprensione deontologica del testo. Si crea un labirinto narrativo da interpretare con molti “manuali d’uso”. Questo mosaico fa da lancio a Vito Zagarrio che inserisce nel contesto la serie televisiva “Tounch” e il film “Ender’s game” mettendo in risalto elementi comuni come: un protagonista bambino [target “prescelto” a cui destinare il prodotto ndr] il sogno, il mondo dei videogiochi, il mondo virtuale [i nemici ndr], in una narrazione ad incastri [che rimanda agli spin off web come “Daybreak” – “Touch” – rivolto sempre ai giovani internauti ndr]. Il dibattito aperto da Veronica Pravatelli mette in luce come sono numerosi i punti di rimando di questi puzzle film; l’origine va ricercata molto più indetro, nei lavori di Luis Bunuel, Alain Resnais e in molti lavori del dopoguerra che utilizzano tecniche narrative non convenzionali con la presenza di elementi seriali, digressioni temporali, specchi e  “breacking elements”. In fondo, mi permetto di aggiungere, il cinema è arte nuova e “nonostante tutto” un’arte! Per cui rotture del linguaggio, per altro non nuove o isolate, non devono essere necessariamente codificate e diventare esse stesse “seriali”, a volte è proprio il tempo reale, non quello diegetico, a spiegare tutto. Un focus di Giacomo Marramao sul “doppio corpo del potere” e la proiezione di “L’Africa di Pasolini” di Gianni Borgna ed Enrico Menduni con i successivi interventi di Mario Panizza (Rettore dell’Università di Roma Tre), Nicola Borrelli (MiBAC – Direttore Generale per il Cinema), Roberto Cicutto (Amministratore Delegato Istituto Luce – Cinecttà) e Andrea Vianello (Direttore Rai Tre) ci ricordano quanto prestigioso sia diventato questo Convegno giunto alla sua 19ma edizione. L’omaggio a Carlo Lizzani con ospiti il figlio Francesco, Giuliano Montaldo, Giuliana De Sio e varie testimonianze inframezzate dalle proiezioni di “Carlo Lizzani, cineasta multitasking” di Vito Zagarrio, e “La canzone di Carlo” di Paolo Di Nicola chiudono la giornata del 27 novembre.
La trasformazione del corpo fisico diventa essenza della percezione. Thomas Elsaessen scompone il rapporto della percezione “fisica” classica con le trasposizioni cinematografiche visibili in “Avatar” di James Cameron, “Vita di Pi” di Ang Lee e “Gravity” di Alfonso Cuarón in cui il disorientamento spaziale creato mediante l’uso massiccio della grafica creata con l’elaboratore è posizione di base. L’uomo/natura diventa via via uomo/macchina in un rapporto sublimato da un’estetica matematico-kantiana dove la supremazia visiva è dinamica e toglie le “gabbie” riportando la paura per la natura selvaggia [la tigre ndr] in un mistake irrisolvibile tra ragione e abbandono all’immaginazione, tra vita come la conosciamo e “nuovo” essere. John Jost, attraverso una breve, ma significativa digressione nel passato, anatomizza i mutamenti delle forme corporee nella cultura occidentale. Tra evoluzioni e involuzioni cicliche il ricercatore sottolinea come la prospettiva nelle rappresentazioni artistiche sia rimasta invariata dal rinascimento in poi. Oggi, la disponibilità di recenti strumenti e nuovi punti di osservazione dovrebbero portare a mutate rappresentazioni del reale, ma non è così. L’illusione della virtualità non ha cambiato l’atteggiamento umano nei confronti del mondo, l’uomo è ancora  relegato in una caverna platonica espansa nella quale non è filtrato il raggio che ha permesso alla Phronesis di germogliare. Questa artefatta costruzione prettamente estetica del mondo attraverso l’illusione del virtuale offusca la vista; essere uomo “sapius” e non solo sapiens sembra prerogativa solo degli artisti che osservano e raccontano il mondo e il suo, chissà, evitabile declino verso l’autoimplosione. Giulio Latini affronta il tema delle nuove tecnologie e della risoluzione temporale nel cinema tridimensionale. Nuove apparecchiature e tecniche per il videomaking  stanno potenziando il digitale [che ancora subisce la supremazia visuale dell’analogico soprattutto nella resa cromatica ndr] con un consistente aumento dei dettagli spazio temporali, mediante l’accresciuta risoluzione e il quasi triplicato frame rate. Questo è visibile nelle più recenti produzioni cinematografiche come “Gravity” che si avvalgono di accorgimenti sempre più sofisticati che abbracciano anche il mondo sonoro attraverso evoluzioni che porteranno in pochi anni all’olografia totale. [quella sonora è già esistente e funzionante ndr] Riprende e approfondisce il discorso Enrico Carocci che si occupa di “Gravity” analizzandone, attraverso 4 schemi, la trama che il ricercatore reputa sì minimale, ma solida. Prendendo spunto da Jaak Panksepp sottolinea come il 3D rende vivido l’ambiente e stimola l’attivazione di sistemi emotivi primitivi in cui il cervello genera mappe corporee anche in assenza di gravità. La Professoressa Maria Perrota parla del corpo nelle rappresentazioni televisive di reality show come “Extreme Make Over Edition” e “Grassi contro magri”. In questi format si manifesta il potere della metamorfosi, la trasformazione che è rivelazione dello spettacolo. Emerge forte, in questo mondo “mutante” fatto di medici e coach, l’adeguarsi dei protagonisti ai canoni del “bello” contemporaneo. Lo specchio, in cui i protagonisti si guardano al termine della “mutazione”, è il riflesso del trovare se stessi mediante un’evoluzione faticosa dove le secrezioni corporee sono fluidi in ampolle di industrial design ottenute in un laboratorio neoliberista in cui sottomettersi all’idea dell’estetica dominante. Raimondo Guardino introduce il tema dell’immagine eterea e poi è un susseguirsi di riflessioni che spostano l’attenzione sul teatro e la deformazione del corpo come quella in Riccardo III. Il movimento sulle punte di Vaclav Fomič Nižinskij in una danza angolare e carica di sensualità è argomento di Concetta Lo Iacono; Samanta Marenzi si sofferma su “Corpo, spirito e immagine” attraverso il kamaitachi di Eikoh Hosoe e Tastusmi Hijikata; Paolo Ruffini racconta di corpi in transito nei territori della resistenza e della resilienza; Maia Giacobbe Borelli “affronta” un corpo a corpo tra Artand e la virtualità nel manifesto per un teatro abortito mentre una “cinepresa cerebrale” si muove nel “teatro” di Carlo Quartucci e Carla Tatò. Chiudono il convegno le proiezioni di “Quadri espansi. La formazione nel cinema italiano” di Francesco Crispino e “La Lunga Ombra” di John Jost.
Il convegno ha mostrato quanto il mondo dell’arte, del cinema, della danza e del teatro, la loro produzione e codifica siano vivi e resistano alle crisi; anzi, sono forse proprio le “opportunità insite nelle crisi” che rendono più forte l’uomo e la sua arte. Rimandando alla XX edizione del Convegno, che qualcuno ha simpaticamente pre-battezzato “XX Congresso”, i protagonisti mettono un altro piccolo, ma importante tassello nella Fabbrica della Conoscenza in un’Italia che dopo il 27 novembre può immaginarsi e ritrovarsi speciale nel Multiverso della creatività, ricominciando a scrivere pagine di cultura per riempire il bagaglio della conoscenza con cui viaggiare nel mondo.
Marco Brama

lunedì 18 novembre 2013

Erik Satie - Parade e Gymnopédie No.1

Satie, unico membro della Chiesa Metropolitana d’Arte da lui stesso fondata, è uno dei personaggi più innovativi della musica di tutti i tempi. Snobbato dai suoi professori forma la sua esperienza nella Parigi prolifica di inizio ‘900. Fidanzato con la bellissima pittrice Suzanne Valadon,  prima donna ad entrare nella Société Nationale des Beaux-Arts, fu amico di Jean Cocteau e Pablo Picasso con i quali scriverà e realizzerà il balletto “Parade” (a cui rende omaggio addirittura Prince nel suo album capolavoro appunto “Parade” in cui l'essenzialità, il bianco e nero, l'ambientazione parigina stanno alla base dell'arrangiamento) e diventerà uno dei principali animatori del “Gruppo dei sei” (i grandi musicisti Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey che erediteranno proprio l’arte e le innovazioni di Satie). Eric è un innovatore antiaccademico che vuole ridonare dignità a tutte le espressioni musicali mostrando come l’accademicismo con le sue regole sia l’assassino della creatività.  Definisce le musiche composte in questo periodo come “Musica da Tappezzeria”, una musica “satirica” contro la musica “dotta”. La scrittura musicale di Satie è originalissima; nel balletto di ispirazione cubista "Parade", ad esempio, usa suoni molto innovativi come sirene, macchine da scrivere e altri "rumori" mai utilizzati prima; la stesura delle partiture non è minimamente inquadrabile nei generi conosciuti, tra tutti le celebri Gymnopédie e Gnossienne. Le sue continue sperimentazioni lo portano a inventare di fatto la tecnica del piano preparato inserendo per la prima volta oggetti nella cassa armonica dello strumento nella sua opera "Le Piège de Méduse" e si cimenta nel primo vero Loop/Groove della storia il brano più lungo mai scritto, "Vexations", composto da trentacinque battute ripetute 840 volte per una durata approssimativa di venti ore. La sua musica ispirerà tutto il movimento Ambient che ancora oggi prosegue la sua ricerca nelle varie forme ed espressioni musicali che vanno dal Chillout alla Minimal ispirando musicisti come Terry Riley e Philip Glass, e Brian Eno. Non bisogna dimostrare nulla, bisogna solo sentire la musica, la sua anima, le sue vibrazioni, le sue proporzioni matematiche sono una conseguenza della percezione acustica umana. Gymnopédie e Parade sono questo: pura arte.



domenica 17 novembre 2013

Edvard Munch - Il grido

« Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. » Così Munch parla de "L'urlo", uno dei quadri più noti della storia dell'arte, tanto da essere spesso tralasciato, dato per scontato: un'icona finita. In realtà il dipindo offre spunti di analisi molto complesse e per niente scontate. Partiamo dalla Norvegia, un luogo periferico, lontano dai fermenti creativi di un epoca in grande evoluzione. Dopo il 1850 l'Europa vive quella che viene definita la primavera dei popoli, la presa di coscenza delle masse, lo sviluppo industriale, l'intensificazione dei commerci. L'Inghilterra, Francia, la Germania, l'Austria e la Russia, anche se in modi diversi e con risultati spesso incompatibili, stanno uscendo dal limbo settecentesco e si avviano verso un futuro intriso di novità e rivoluzioni. Munch si trova lontano dai centri nevralgici e artistici europei. La sua Norvegia esce da poco (1814) dalla dominazione danese ed è sotto il controllo svedese che durerà fino all'indipendenza del 1905. La sua è una terra affascinante, ricca di contrasti, dove la natura selvaggia si mostra potente e sovrumana. Munch si sente piccolo di fronte a questa natura gigantesca che urla in silenzio la sua maestosità. E lui è lì, in mezzo al silenzio di un creato enorme e pervasivo, lontano dal resto del mondo. La sua angoscia, il suo richiamare l'attenzione invano, il suo cercare di comunicare la sua angoscia e la sua finitezza umana lo portano a raccontare se stesso attraverso i colori. Un precursore dell'espressionismo che da "Il grido" (nelle sue varie versioni) prende spunto per  il progetto “Il Fregio della vita” (1893-1918) composta da numerose tele elaborate secondo quattro temi fondamentali: Il risveglio dell’amore, L’amore che fiorisce e passa, Paura di vivere, di cui fa parte Il Grido, e La Morte. Ma si arriva all'urlo attraverso il narrare quel luogo specifico, quella balaustra affacciata sul fiordo in molte tele. Quel luogo speciale, lontano dai rumori della città in un anfiteatro naturale che affaccia sul mare. Il pittore spettatore e protagonista del quadro.

Il dipinto Dispeir del 1892 ci mostra questo luogo speciale. Un pontile, un bel vedere che offre una visione dall'alto di un fiordo. Il paesaggio è un vortice sanguigno e tumefatto che si confonde in una spirale che sembra avvolgere tutto. Munch è lì, in silenzio, in disparte, lontano dai suoi due "amici" borghesi che si allontanano indefferenti a lui e alla natura. La lingua del fiordo è silente alla disperazione del pittore. Questo luogo tornerà ancora più emaciato e delirante nel grido del 1893. La figura è devastata e pervasa dall'orrore, dalla paura, le sue forme si confondono con il roteare della spirale paesaggistica come a sottolineare che in fondo anche l'uomo è natura, ma è una natura persa, che non sa più quale è il suo posto, forse uno spettatore ... ma nemmeno. Il protagonista è in soggettiva, guarda l'astante, noi che osserviamo la tela, ed è questo gioco a spiegare il tutto. Io guardo te, mentre te osservi me, come se Munch fosse all'interno del dipinto e osservasse per sempre gli "spettatori". Ora ne "Il grido" la natura è ancora più cosmica, e avvolge tutto partendo dal basso della terra con una lingua serpentiforme che si perde nel fiordo; un occhio gigante e senza pupilla si staglia a sinistra nel cielo e controlla in silenzio la scena. La società è sempre lì, ancora più in disparte e sempre indifferente al grido dell'artista il cui volto è quasi un teschio. I colori della pelle rimandano alla decomposizione della carne, alla morte inevitabile.     

Nel 1892 Munch ci presenta in "Sera sulla via Karl Johan" una folla inquietante e curiosa che osserva e non parla. Una folla ben vestita, integrata, efficente, ma anonima. I volti tendono a confondersi, a diventare puntini spersi in una strada che è il pontile della città. La natura è più in disparte, ma ricorda la sua presenza nella roccia irta e gigantesca che incombe sull'opera dell'uomo. Siamo noi che guardiamo il quadro o sono loro che ci osservano? La prospettiva in soggettiva della folla è ancora più inquietante.

È infine in "Anxiety" del 1894 che si chiude il cerchio. Torna il paesaggio de "Il grido", la natura è ancora più difforme ed emblematica, nel cielo una fenice rossa ricorda la potenza degli elementi. L'uomo è lì, sul pontile, in soggettiva che osserva silente e insensibile il pittore. Una folla che diventa via via informe,  ectoplasmatica. Sullo sfondo le sagome della città ... forse ... e le immancabili navi che potrebbero portare Edvard lontano da lì.

Ingmar Bergman - Persona

Non sono pochi i film che hanno segnato la storia del cinema e della cultura, ma alcuni lo hanno fatto in modo prepotente, ancestrale, lontano dai clichè. Persona è uno di questi capolavori assoluti. Il film, il preferito tra quelli realizzati dallo stesso regista, è un gioiello cinematografico unico e complesso che offre spunti per riflessioni profonde e mai banali attraverso chiavi di lettura inscatolate e stratificate in una fasciatura di cui non si vede l'inizio e non si intravede la fine.

L'attrice Elisabeth Vogler si chiude in un assoluto mutismo. Ricoverata in un ospedale psichiatrico, viene riconosciuta sana nel fisico e nella mente, non soffre di afasia, ma ha scelto coscientemente di non parlare più. Le viene proposto un periodo di riposo nella sua casa in riva al mare durante il quale sarà assistita dalla giovane infermiera Alma. Nasce tra le due donne un "legame doppio" molto particolare in cui ai silenzi di Elisabeth si contrappone l'incessante e catartico racconto di Alma. Il legame si spezza quando l'attrice tradisce la fiducia dell'infermiera raccontando i segreti di quest'ultima al marito. La trama apparentemente lineare è il filo conduttore di un'analisi incredibile che si snoda in ogni direzione. Le attrici Bibi Andersson e Liv Ullman e i loro volti meravigliosi, i personaggi e le persone che indossano. Elisabeth è la prima. La sua maschera cade durante l'interpretazione dell'Elettra ed è l'inizio. L'inizio di un percorso fatto di silenzi, di pensieri soffocati, dialoghi trasformati in monologhi, personalità che si sfiorano e restano sospese in un vuoto cosmico. Doppio, unico, io, me, amore, odio, vita, morte.Elisabeth che non vorrebbe avere avuto un figlio, Alma che è costretta a tirare fuori i suoi mostri per non soccombere al soffocamento psicologico imposto dal silenzio della sua paziente. Un marito, una dottoressa, un'auto, poca musica; tutto è scarno perchè tutto è lì in quel silenzio assordante.Le innumerevoli sfumature di grigio dei paesaggi, dei vestiti, degli arredi nella una fotografia  strepitosa e minimalista di Sven Nykvist; lo sfocato delle immagini, le improvvise messe a fuoco, le sovrapposizioni, le sequenze frenetiche nel montaggio magistrale di Ulla Ryghe tutto ricorda allo spettatore che è cinema, anzi: l'arte del cinema ... ma è anche documentario, cronaca inevitabile del suo tempo e Bergman ce lo ricorda con degli schiaffi a mano aperta, dei pugni nello stomaco quando mostra la cronaca di un cinegiornale. E ancora: l'apertura con l'immagine del figlio di Elisabeth che cerca il volto della madre proiettato su di una parete irraggiungibile, la pellicola che si aggroviglia, poi brucia come l'uomo nel cinegiornale, gli occhi e i primissimi piani, i saltimbanchi, i flash della mente. Bergman passa da un frame cognitivo ad un altro in un balzo, giocando, mantenendo alta l'attenzione e l'attesa. La bidimensionalità che diventa icona e sembra reale, comprensibile; la follia è dietro l'angolo; il sottile filo dell'equilibrio che si tende ad ogni fotogramma. In effetti anche lo spettatore è sconcertato: qual'è l'attore da seguire? in quale dei due personaggi "bisogna" identificarsi? Il gioco delle parti non dà risposte; nessuna delle "persone" è come la vogliamo, o forse siamo noi stessi doppi e riflessi dell'immagine e della vita degli altri ...


Titolo originale  Persona
Lingua originale svedese
Paese di produzione Svezia
Anno 1966
Durata  85 min
Colore  b/n
Audio sonoro (AGA Sound System)
Genere drammatico
Regia Ingmar Bergman
Soggetto Ingmar Bergman
Sceneggiatura Ingmar Bergman
Produttore Lars-Owe Carlberg
Casa di produzione Svensk Filmindustri
Fotografia Sven Nykvist
Montaggio Ulla Ryghe
Musiche Lars Johan Werle
Scenografia Bibi Lindström
Costumi Max Goldstein
Trucco  Börje Lundh, Tina Johansson
Interpreti e personaggi
Bibi Andersson: Alma
Liv Ullmann: Elisabeth Vogler
Margaretha Krook: la dottoressa


Gunnar Björnstrand: il marito di Elisabeth
Jörgen Lindström: figlio di Elisabeth







Alcune immagini del film









sabato 16 novembre 2013

Luciano Berio - Sinfonia

Come possiamo quantificare, se mai è possibile, la grandezza di un essere umano? Io non lo so! Siamo tutti grandissimi e piccolissimi puntini che vagano in una società complessa e che tende ad un alto che non rappresenta certo l'elevazione spirituale. In realtà sosteniamo che l'io superiore è quello razionale e quello inferiore l'istinto, ma il nostro tendere all'alto spesso non è crescere spiritualmente o razionalmente. L'alto è visto un po' come il salvadanaio stracolmo di delizie a cui attingere a mani tese. Eppure ogni tanto qualcuno lascia un ricordo della sua mente indelebile. Berio lo fa attraverso la musica e la sua invenzione, attraverso la ricerca, la sperimentazione, cercarcando l'innovazione nel progresso, reinventando codici e raccontando il cammino della società e delle sue conquiste. Perchè capire? Non è importante, l'importante è essere. Il suo interesse per la musica elettronica lo porta a sperimentare nuove forme e approcci polisemici che ancora oggi spaventano e disorientano. Questo perché la sua è vera arte e vera ricerca lontana dalle omologazioni e dalle standardizzazioni dell'industria musicale che ha preso come modello di riferimento culturale il nulla. Non entro nel merito di quello che è stato "istituzionalizzato" di Berio (per quello c'è Wikipedia) ma parlo del non detto, dei silenzi, dei deliri, delle banalità e delle ovvie inconsuetudini di una musica che a distanza di anni lascia ancora a bocca aperta e lo fa perchè le strade a volte sono troppo ripide e difficilmente percorribili. Ma il gusto è anche e soprattutto il frutto di scelte e di racconti, il mondo non è così come lo vediamo, ma la costruzione di eventi stratificati ad  opera di chi ha scelto. A me non interessa la facile mediocrità, interessa la pura libertà espressiva. Nella sua "Sinfonia", componimento per grande orchestra e 8 voci amplificate, Berio fonde metodologie semantiche diverse e apparentemente inconciliabili inserendo parti di testo riprese da vari autori tra cui Claude Lévi-Strauss con il suo "Le Cru et le Cuit" ispirato alla mitologia amerindia in cui si scorge una ricerca sulla linguistica strutturale riadattata al contesto; in questi miti Berio nota una stesura che richiama la fuga e la sonata e trasporta questo in musica (Lévi Strauss neanche si rende conto di questa struttura dei miti che aveva utilizzato e se in un primo momento snobberà Berio sulla scelta dei testi, sarà costretto a ricredersi e a scusarsi per la sua totale incompetenza musicale),  Samuel Beckett con "L'innominabile". Questo lavoro su tutti sembra influenzare e permeare la stesura musicale più degli altri. Il linguaggio usato da Beckett è sconnesso, senza una trama apparente, in cui il protagonista è personaggio e scrittore disperato. Frasi collegate e scritte senza punteggiatura sembrano richiamare il fluire delle voci che si aggrovigliano, intrecciano, richiamano in modo apparentemente caotico. L'innovazione del parlato con grida, sospiri e quant'altro bilancia solo in parte le citazioni musicali fatte da Berio. La struttura (nella versione definitiva) è quasi a specchio con i movimenti estremi che si rimandano (1-5;4,2) anche se in modo complesso e la parte centrale (terzo movimento) che costituisce il fulcro centrale e unico. Se i testi sono numerosi e rimandano a James Joyce, Martin Luter King o riprendono vari scritti tra cui estratti sul '68 del diario di Berio, la musica non è da meno. Il terzo movimento è "LA SINFONIA". Berio crea un collage musicale utilizzado estratti di decine di brani di altri autori, miscelandoli, sviluppandoli, deridendoli (mettendo in luce ad esempio la linea del violino nel secondo movimento del Concerto di Alban Berg con la linea melodica MOLTO simile dello "Scherzo" di Mahler). Una vero cesto delle delizie carico di tutto: Mahler su tutti e poi Richard Strauss, Stravinskij, Beethoven, Schoenberg, Boulez, Anton Webern, Ravel, Berlioz, Debussy, Paul Hindemith, Stockhausen, Bach. La cosa incredibile è che questo non è un minestrone, ma una colta rielaborazione con un linguaggio musicale completamente nuovo; non solo, la miscellanea di linguaggi che abbracciano circa 4 secoli di storia della musica fa diventare "Sinfonia" l'opera con la più ampia gamma di tecniche mai utilizzate in una singola composizione musicale.




Elvira "Coda" Notari.

È stata la prima e più prolifica cineasta femminile in Italia realizzando durante la sua carriera più di sessanta film e un centinaio di documentari.
Sposa Nicola Notari con il quale fonda la Dora Film. Una pioniera che passava dalla camera da presa alla sceneggiatura, dall'organizzazione alla regia trasponendo in linguaggio filmico  la sceneggiata napoletana utilizzando attori non professionisti anticipando  non poco il neorealismo nella sua concezione narrativa.
Elvira racconta il mondo dal punto di vista delle donne, tutte le donne, ma sopratutto quelle che non stanno "nelle regole", quelle che vogliono raccontare la loro idea di mondo attraverso le loro esperienze e un'attenzione alla soggettività tematica femminile.  I suoi film che raccontano la vita da un punto di vista diverso da quello istituzionale hanno, all'epoca, subito forti censure. Anche l'aspetto sensuale della figura femminile è stato interpretato come poco "consono" alla morale e quindi deprecabile e forse è per questo che la sua figura è stata in parte dimenticata. Tutte le sue opere sono interessanti e meritano la giusta attenzione e riscoperta, su tutte: "E Scugnizze", "'Nfama", "Napoli Terra d' Amore", "Duie Paravise".

Elvira Notari

Carla Paiolo - Chinese Shadows on the Road

Carla Paiolo - Chinese Shadows on the Road
Non dire, esprimere, nero, tratto, modifica, nudo, corpo, mente, silenzio, urlo. Creare un "dispositivo che segue urgenze e si inserisce in tessuti che eludono la coerenza, tra zone sospese e paesaggi praticabili". L'arte è fatta di scelte, di percorsi! "Si alimenta di relazioni come appunti da incastonare in un terreno diafano, edificando al sentore dell’anomalia." Annulare o delineare fino alla cancellazione della "forma intesa come principio determinato" un "Transito di passeggeri con accesso verticale per una danza in differita di condotti preposti al respiro." Questa è Carla Paiolo una delle più interessanti artiste contemporanee immersa e allo stesso tempo distante da questo nuovo millennio così convulso eppure silenzioso e polimorfo. La sua fisicità e il suo maniacale perfezionismo nell'incisione di cui è maestra emergono nelle sue performance dove è il corpo stesso un cristallo di quarzo che vibra al ritmo dell'aria, in una sorta di trance spazio temporale in cui la materia è estensione degli arti; ma anche nei suoi video tra cui emerge prezioso "Chinese Shadows on the Road", girato in Cina nel marzo del 2008 che mostra una sensibilità fuori dal comune e un occhio attento in grado di scavare l'anima umana. La scimmia, la donna, le catene, i fardelli di una società misogina e superficile graffiata dal nero ipnotico che diventa barlume di respiri eterei nel rosa fugace di un attimo. E poi fantocci, stoffe, plastica, vetro, tele, oli, polaroid flash che mettono in luce quello sguardo attento sul mondo, nei suoi viaggi nel sottobosco della libertà creativa, in una strada, in un bar, in un treno. Un'artista che divide e spiazza come solo i grandi sanno fare. "....If I want to create real, lasting, meaningful change in my outer world,
I need to start with my inner world. Once I did that, once I started
thinking, acting, and being different, once I started seeing others and
myself in a different light, I was amazed how much change seemed to
happen automatically. Things that before seemed to take so much effort,
frequently appeared to come about on their own. As this concept, surrounding "Chinese Shadows on the Road".
I really feelt. There is still me, but talking to the others. I made and deleted something, I believe.
So..
- Chinese Shadows on the Road -
"Like a Chinese Shadow'sTheatre...
Your eyes capture movements, acrobatics, gestures.
But they are only a black outline in the space.
You think you see shapes, but in reality there are just their shadows.
Little princess in pink."
Altre informazioni sono reperibili nella pagina dedicata al progetto DISAMBIGUA ART SPACE su Facebook Disambigua

Carla Paiolo