giovedì 26 febbraio 2015

Guerra? No grazie!

Questi programmi televisivi di attualità sono deleteri, demagogici, populisti e alimentano l'odio tra le persone senza spiegare il perché delle cose. Ora faranno di tutto pur di giustificare una guerra! C'è una parte di non detto che vive nell'omertà di un potere piegato all'economia; deprimente sapere che le persone non sanno e non gli verrà mai spiegato...

giovedì 19 febbraio 2015

Ennesimo Limite 2: Burraco Superstar

Il gioco delle carte come metafora della vita.  Non tanto icone di re e regine, quanto piuttosto il tentativo inutile dell'uomo di mettere ordine alle carte nel caos della loro arbitraria distribuzione. Carte limitate in numero e accoppiamenti, carte regolate da leggi rigide, carte che nonostante bravura e rispetto metodico delle regole restituiscono sempre risultati imprevedibili! Non solo mettere ordine in solitaria, ma è soprattutto vincere o perdere, con avversari e compagni, che è testa e croce della stessa medaglia.
Marco Brama

mercoledì 18 febbraio 2015

Ennesimo limite

Tutte le riflessioni cercano di spiegare meccanismi, fini, mezzi, esperienze presupponendo di vivere in un Mondo sensato.  È proprio questo il limite.  Il mondo e l'Universo sono caos e frutto di casualità.  La stessa riproduzione animale e vegetale sono il risultato di casuali allineamenti genetici regolati dal caos stesso, dalla posizione della Terra nel Sistema Solare, dalla posizione del Sole nella Galassia, dalla natura stessa di una comune, non la più comune, stella gialla. Tentare di dare senso, oggettivare, "soggettivare", regolare, spiegare, classificare, serializzare significato e significanti è solo vana e banalissima sedimentazione, creazione di un pilastro di riferimento per un uomo piccolo, piccolo. Il tentativo di creare una società complessa è solo illusione di dominio sul tempo. Società inutile che riempie lustri di vita degli uomini, distogliendoli dal godimento pieno. Creare surrogati del sesso attraverso surrogati del gioco sublimati nella guerra e nella cultura stessa.  Questo scritto è il risultato di tempo sottratto ad attività libere, senza costrizioni, senza preclusioni, senza sovrastrutture istituzionali.  La filosofia stessa è punto di partenza, insieme alle scienze e alla cronaca/storia, dell'istituzionalizzazione e della fine della libertà umana.
Marco Brama

Già so!!

Non esiste una buona filosofia o una buona conoscenza. Il sapere umano che tutto sovrasta nella sua moltitudine infinita di stratificazioni di pensieri è inconoscibile da chiunque. È organizzabile, archiviabile, conservabile, riproducibile, esperibile, ma non può e potrà mai essere acquisito integralmente da alcun essere umano. Ogni considerazione è in realtà soltanto frutto dell'esperienza personale, del contesto e della preparazione culturale. Ogni essere umano ha naturali e innate conoscenze, comprensioni del mondo e delle manifestazioni che incontra.  Possiede nella totalità dei casi, a meno di ritardi cognitivi, una padronanza profonda e chiara dei meccanismi fondamentali, dei funzionamenti della sua stessa essenza, delle leggi caotiche universali.  Lo studio sistematico è solo l'organizzazione parziale di queste protoconoscenze interiori e naturalmente presenti.

venerdì 13 febbraio 2015

Lapidario e variabile

La ricerca dell'equilibrio è una delle pratiche più consolidate. Come se tutta l'esperienza fosse il tentativo di trovare una certezza, un punto fermo, una felicità immutabile ed eterna che soddisfi perennemente il punto di domanda.  Ma è proprio da questa incertezza che nasce la ricerca, la motivazione, la spinta umana a comprendere o a soddisfare pulsioni o mitigare tensioni. Senza questo perenne stato di disallineamento, incerta mutevolezza, instabile posizione emotivo-percettiva di sé all'interno di una società e di sé individualmente isolato, non avrebbe senso la spiegazione di nessun concetto, la ricerca di una verità sopra le altre. I giochi dei filosofi, che intrattengono la propria mente come in una eterna partita a scacchi con i filosofi che furono, è per lo meno risibile. L'uomo è quello che è, non muta nel tempo. Si arricchisce emotivamente, senzientemente, esperenzialmente, ma non cambia ciò che è, ovvero un essere instabile che vive una vita in perenne allineamento con gli altri tentando di trovare un senso assoluto, un godimento immutabile e ordinato in un'esistenza terrena che gli ricorda costantemente che la coscienza è l'errore più grave in cui si è imbattuto. La logica è pura illusione e astrazione dal complemento, antinaturale costruzione che allontana dai bisogni primari. Possibilmente borghese ogni vanesia considerazione metropolitana, frutto di un'economia che appagando gli istinti primari, crea tempo non preventivato nell'esperienza umana animale. Sì, perché ci consideriamo demiurghi e non animali quali in realtà siamo. Anche questo scritto è stato possibile per via delle migliorate condizioni di vita, la stratificazione della cultura e l'accumulo del tempo. Nella realtà dei fatti, dei luoghi lontani dall'organizzazione capitalistica occidentale, la vita è ancora meravigliosamente insensata, precaria, finita. Finirà inevitabilmente con l'esplosione solare anche in Occidente (ovviamente), ma gli intellettuali hanno creato l'illusione del progresso, del necessario, del culto prima e del colto poi, depositari di un sapere enorme e disumano. Appunto, disumano! Un modo buffo, imbarazzante perché fortemente vanesio di intrattenersi prima del sopraggiungere dell'orgasmo supremo, elucubrazioni mentali con tanto di imitazione dell'aristocrazia francese in un'inflessione comica e ridicola fatta di vocaboli ricchi di r proninciate in modo snob. Tentativo di innalzarsi, di sostenere che i propri ragionamenti sono più importanti e sensati di quelli di un contadino che vive atavicamente un retaggio naturale. Estetica borghese che esalta ballerine, showgirl, calciatori, ma al contempo scrittori e manager. Nell'immaginario collettivo il contadino è brutto, l'operaio è sfigato, lo spazzino un perdente. Invece è tutta un'invenzione intellettuale e borghese che non rende merito alla creazione stessa dell'uomo e al suo corpo. Cari filosofi, ahah come è buffo vedervi arrovellare nelle vostre contorte considerazioni che saranno cancellate dalla metafisica stessa. Tutto ruota a spirale, tutto tenta di accoppiarsi e riprodursi, tutto è ciclico; il beneficio di un contatto, manifestazione fisica del reale.  Piccoli, piccoli, piccoli... piuttosto, mantenere inalterata questa condizione di instabilità se non volete cadere in depressione!

venerdì 6 febbraio 2015

Esattamente accademico

Ritenere che l'università possa formare qualcuno?  Su che base?  L'istituzione rappresenta intellettualmente intelletto, quindi crea numeri valutati con numeri. L'accademia sorregge la storia, la storia sorregge il mondo, ma la cultura non è un percorso già creato, ma un divenire incessante e tumultuoso. Un'onda che avvolge, sballotta, inghiotte e risputa oggetti, idee e uomini continuamente. Una selezione oserei dire acontenutistica che valuta il minimo comune denominatore, l'idea indossolubile di base che seppur messa in crisi, talvolta bruciata dall'evidenza, si riforma, rinasce dalle sue stesse ceneri. La sedimentazione del sapore grande, immenso, incomprensibile, irraggiungibile schiaccia il singolo e la ragione.  Superficialità, arte morta nel cassonetto di un derelitto bluastro che se aperto urla come il teschio di Munch, si contorce nei corpi di Schiele, so dissolve nelle tele di Malevic, muore nelle idee di Duchamp... nei pensieri di Hausmann...

mercoledì 4 febbraio 2015

Un nuovo ciclo

Disseminati ovunque resti delle leggende. Puma Punku, città sommerse in Giappone, residui radiattivi in Pakistan, Africa... OOPART ovunque, strati e cicli che ritornano... datazioni scientificamente valide rifiutate per una linearità che non esiste. Storicizzazione di una verità inesistente, di un progresso agonizzato e antinaturale. Riavvolgere immediatamente la corda del tecnicismo, preservare il buono creato, rifiutare il livellatore monetario, creare un modello di sviluppo integrato e alimentato da energie per noi praticamente eterne e autoctone. Incentivare il controllo dei fenomeni cosmici, dei meteoriti vaganti, creare stazioni orbitanti e concentrare gli sforzi per una migrazione futura al termine del ciclo vitale solare. Codificare completamente il DNA e migliorare le condizioni di vita di tutti, lasciare inalterato il globo terracqueo. Raccontare le verità sui cicli vitali terrestri, sui moti a spirale delle rivoluzioni celesti, ragionare in termini qualitativi e non quantitativi. Giungere ad una vita che fonde natura e scienza, tecnica e cultura, creazione e preservazione, coscienza evolutiva, peso numerico, alimentazione sostenibile, vegetarianesimo diffuso, benessere ecocompatibile e riproducibilità energetica. L'evoluzione è ciclica, al big bang seguirà il big crunch e poi un altro big bang e così via... ovviamente troppa fatica per creare un prodotto che ha una scadenza. Finito è l'uomo, non l'aggregazione atomica. Noi siamo colonie cellulari e batteriche organizzate sapientemente, cooperazione di miliardi di esseri, involucri composti da miliardi di vite. Il corpo è solo un confine materico geografico temporaneo da cui i sottoprodotti finali torneranno infine nel ciclo come materia che riavrà forma e nutrirà piante e animali, tornando in quella che noi chiamiamo arrogantemente vita più volte, in nuove forme, più o meno complesse... forse riassorbite da una stella qualunque o fagocitate da una stella nera... acqua, cenere, atomi, aggregazioni temporali. Forse...
Marco Brama

Benjamin e il limite della riproducibilità

Sarò rapido, non ho tempo e interesse per scrivere lungaggini; sto studiando. Non mi interessa neanche essere capito o condiviso. Lo dico perché è una considerazione che ritengo interessante, visto che vivo in questa società! Arrivo al nocciolo! La copia della copia ok l'abbiamo capito, l'aura in realtà dipende anche e soprattutto dal contesto in cui l'opera viene fruita, dal momento, dalla predisposizione all'ascolto, allo stare al gioco dell'artista, all'illudersi che quello che stiamo vedendo sia realmente l'originale e non la copia (pensiamo alla copia in Piazza della Signoria a Firenze del David e alle innumerevoli fotografie e allo stupore suscitato sul turista inconsapevole); anche la riproducibilità è "pura" illusione. Puoi minare il concetto di capolavoro, ma xilografia, litografia, serigrafia e stampa anche digitale non daranno MAI una copia perfetta o un seriale perfetto e riproducibile all'infinito; se non da ultima l'usura dei supporti sulla matrice, c'è sempre l'imprevedibilità del macchinario creato dall'uomo, della carta creata dall'uomo, ma condizionata dalla disposizione casuale della cellulosa ad opera della temperatura, del tipo di legno, dell'acqua, così per la stoffa, sia fatta di fibra naturale sia di alchemiche fibre sintetiche. Lo sbaffo, l'inceppamento, la microfrattura sono sempre presenti anche in un processo realizzato da una macchina concepita, realizzata e azionata dall'uomo. Se prendiamo un microscopio (che potrebbe non essere privo di difetti) ed analizziamo, non esisteranno mai due stampe uguali, ma sempre copie di un originale che diventa prodotto del surrogato per la massa! Inutile dare alla fotografia un ruolo che merita solo in parte. E' stata fondamentale, ma non è lo step definitivo! Il passaggio successivo alla fotoimpressione analogica è la "creazione" digitale! L'unica forma di opera riproducibile è solo questa, composta esclusivamente da impulsi che restituiscono sempre lo stato di nero e bianco, luce e buio, acceso e spento, zero e uno! L'unica forma d'arte che mina al concetto di capolavoro è quindi quella digitale nella sua sequenza numerica, nella sua lista di programmazione, nemmeno riprodotta su un monitor, che può in effetti mostrare variazioni di colore rispetto al monitor di partenza. Quindi è l'idea trasformata in programma, o meglio ancora, l'opera digitale creata in digitale, nemmeno dipinta o fotografata e poi digitalizzata, ma nativamente digitale. Per raggiungere lo stato di perfezione concettuale dovrebbe nascere direttamente in codice macchina. Allora si! Detto che questo renderebbe il tutto molto difficile, se non impossibile, diamo per assunto che ad esempio, l'idea è quella di immagini statiche o in movimento, suoni o rumori senza supporto alcuno, diffusi nella rete, riprodotti all'infinito su innumerevoli server sparsi nel mondo! Questo è esente da vizi e deformazioni che, seppur infinitesimali, inverano la riproducibilità dell'opera stessa. Ora quello che, togliendo l'aura all'opera d'arte e dandola in pasto ad una sempre più affollata e illusoriamente democratica massa di fruitori d'arte, ci ha voluto far credere che in fondo l'opera d'arte è un'esperienza sensibile individuale, ha tolto il confronto con la mente dell' artista, mente grande e spazioda rappresentata volumetricamente dall'icona della galleria d'arte. Si dice che un'opera viva solo se qualcuno la riconosce.  Questo è la base dell'istituzionalizzazione dell'arte, della cultura, della mercificazione manzoniana di una lattina di vomito putrefatto, ma non l'urgenza del racconto.  All'artista non importa del perché o del per come. Il vero artista crea e la sua opera e la primogenita che lui posiziona e gestisce, non le copie dello stipendio istintivo  e quantitativo.
Marco Brama

Osservazione da bar

Niente ragazzi i film con gli squali che piovono dal cielo con milioni di incassi, visite e mi piace sono troppo anche per chi studia cinema!! E sono anni che piovono sti cacchio di pesci! È inutile che mi parlano di noir, woman's film, family drama, nuova Hollywood... aveva ragione Bordwell, tutto il cinema americano è aristotelico... cioè per dirla tutta, una favola, una storia che ricalca in eterno l'Iliade e l'Odissea. Nuove formule, nuovi effetti, nuovi attori, nuove tecniche, nuovi gadget, nuovi mezzi di distribuzione, ma sempre la stessa storia!  Le possono pure spezzettare a puzzle le trame, ma non è cinema moderno!  È cinema classico rimpastato in mille salse... niente a che vedere con il cinema d'autore!! Dice non puoi generalizzare, beh ad oggi io non ho visto un solo film americano per la grande distribuzione moderno... perfino Coppola, Linch, Scorsese, Tarantino non si salvano, niente da fare! I film sono fatti benissimo, ma manca l'arte, la scintilla, l'unicità, la libertà creativa... si salvano le opere minori, i film mal distribuiti, i film dimenticati...  Twice a man di Gregory J. Markopoulos, Scorpio rising di Kenneth Anger,  Shadows di John Cassavetes, The Connection di Shirley Clarke , Andy Warhol Sleep e Eat ed Empire, Guns of the trees e Adolfas Hallelujah the hills di J. Mekas, Flaming creatures di Jack Smith, Disappearing Music For Face di Mieko Shiomi, Fog Line di Larry Gottheim, tutti i lavori di Laura Mulvey, Chantal Akerman e Sally Potter,  Fly di John Lennon e Yoko Ono,  Tom, Tom the Piper's Son di Ken Jacobs.  Fine io non ho trovato altro!!

martedì 3 febbraio 2015

Estetica del cinema - Analisi e Sunto di "Lo Stile Moderno"

Il presente articolo è in fase di correzione ci scusiamo per i numerosi errori di battitura
ANDRÈ BAZIN
PAROLE CHIAVE: formalista, realtà, avanguardia, dialogo del cinema con altre arti, realismo fenomenologico, scarto rispetto alla norma, metalinguismo

Bazin è un formalista. I tre grandi movimenti formalisti del cinema sono:
1-Realismo Socialista del cinema sovietico
2- Neorealismo Italiano
3-Realismo poetico Francese
Bazin contrappone radicalmente al cinema classico il "Cinema reale" che animerà la Nouvelle Vague Francese. Al quarto d'ora di realtà del cinema Dada e Surrealista egli contrappone tutto il testo filmico. Nel 1949 è autore di un intervento al Festival du Film di Maudit intitolato significativamente "L'avant-garde nouvelle" in cui distingue due avanguardie:
1-Avanguardia storica che produce nel 1925 la prima scuola critica e che rivaluta il cinema come arte. Secondo lui i protagonisti di questa avanguardia sono sopravvissuti soltanto se ha accettato le regole del gioco commerciale.
2-Considerando che l'avanguardia è di per sé immortale, la sua sopravvivenza è manifesta nel cinema che ne deriva. Quindi per lui è avanguardia ciò che si pone "avanti" rispetto al cinema- Questa seconda avanguardia, il cui esempio perfetto è costituito dal renoiriano La Règle du jeu, ha il suo punto di riferimento in Eric von Stroheim. (Rapacità, un film di 8 ore tagliato a 2, in cui è presente una maniacale cura per i dettagli) - Questa seconda avanguardia non ricerca per principio l'incomprensione e si sforza di iscriversi della condizioni normali del cinema, esponendosi al peggiore dei rischi: il malinteso col pubblico e con i produttori.

Per Bazin il cinema è un complesso dispositivo di significazione; l'intero film deve essere significante. Al cinema puro contrappone un cinema che instaura liberamente un tessuto di rapporti con le altre arti (pittura teatro romanzo) senza pregiudizi. Entrando nell'età della sceneggiatura il cinema ha creato un rovesciamento tra contenuto e forma. La superficie (estetica) non commuove e non basta più da sola; al contrario è fondamentale il modo in cui è messa in opera la relazione tra cinema e belle arti.

REALISMO FENOMENOLOGICO
E' importante anche la tecnologia che va avanti offrendo sempre nuovi mezzi, ma è altrettanto importante il rapporto con gli attori, il miracolo della recitazione e i fenomeni che si manifestano di volta in volta, ovvero: l'esperienza intuitiva come punto di partenza e prove per estrarre da esso le caratteristiche essenziali delle esperienze e l'essenza di ciò che sperimentiamo. Jean Mitry e Jean Louis Comolli individuano un'antinomia nel discorso baziniano che sembrerebbe quasi un realismo ingenuo, che negherebbe le operazioni di costruzione del testo respingendo quindi il cinema come linguaggio: il cinema restituirebbe soltanto la rappresentazione del reale, il suo analogon come se il cineasta non manipolasse il materiale filmico. Le cose però non stanno semplicemente così. Oltre alla contrapposizione tra Piano-sequenza e profondità di campo contrapposti al CAMPO/CONTROCAMPO del découpage classico, Bazin individua  nello "scarto rispetto alla norma" il segno della moderna avanguardia. Questo, se pur non in modo esplicito, rimanda ai formalisti russi e al concetto di Violazione della norma. Questo concetto è ben chiaro in alcuni saggi, il più importante dei quali è dedicato al film di Robert Bresson "Il diario di un curato di campagna".

ROBERT BRESSON
PAROLE CHIAVE: Romanzo, antipsicologista, antiespressionista, cinema privo di arti, trasparenza, piano-sequenza, profondità di campo, adattamento opera letteraria, scarto, sottrazione, violenza, superficie, epidermide, opera cinematografica complementare, musica come cassa di risonanza

In questo film Bazin evidenzia due punti fondamentali: da una parte il volto dell'interprete privato da qualsiasi forma di simbolismo espressivo, dall'altra la "realtà scritta". Bresson effettua degli scarti, ma ciò che mostra è inalterato, fedele al romanzo, considerato materiale grezzo come i suoi personaggi. Una realtà data da personaggi, scenografie e romanzo; quest’ultimo da non modificare o piegare alle esigenze, ma anzi mantenuto per mostrarne lo stile. Il film diventa una seconda realtà, parallela, mostrata con i mezzi e lo stile che le sono propri. Il risultato è un cinema "antopsicologista"e "antiespressionista", dove tutto è giocato sulla superficie, sull'epidermide senza artifici. Il romanzo è quindi un testo concreto nella sua struttura e nel suo stile e che non va dissolto, al contrario messo in risalto nel film. CINEMA TRASPARENTE (dove non si mostra la realizzazione, la MPD ...)

Il cinema ridotto a mezzo che restituisce l'ambiguità del reale, lasciando allo spettatore la libertà di attribuire un proprio senso alla realtà appare piuttosto ingenuo: in effetti secondo questo punto di vista il cinema renderebbe soltanto un perfetto Analogon del reale. I concetti di "trasparenza"  dello schermo e di "ambiguità" del reale sono in larga misura riconducibili ad un saggio dedicato da Bazin a William Wyler dove è centrale il tentativo di illustra due "fatti" di linguaggio: piano sequenza e profondità di campo come indici empirici di quello che viene definito Cinema moderno. Quello che emerge è come sia interessante la scelta che fanno alcuni autori rispetto al découpage classico. Questo scarto rispetto alla norma ci riallaccia ai formalisti russi per i quali era importante il concetto di violazione della norma. Questo avvicina di molto il discorso del realismo e della scuola formalista per eccellenza. Un importante saggio di Bazin è dedicato al  DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA di Bresson visto come  modello per un possibile adattamento dell'opera letteraria al cinema contrapposta all'adattamento tradizionale.  Il romanzo deve essere confermato nella sua essenza, è un'opera a se che non va dissolta, ma valorizzata nel film.

Personaggi, scenografie e romanzo sono tre realtà date che Bresson conferma nella loro materialità.
Il risultato è un cinema antipsicologistico e antiespressionista, dove il senso più profondo è attingibile proprio grazie al fatto che tutto vi è giocato in superficie, osservabile e documentabile: il volto dell'interprete è ridotto all'epidermide, la natura che lo circonda è priva di artifici.  Il romanzo è considerato una realtà a sé, non più inventario di situazioni e psicologie da cui attingere, ma da confermare nella sua essenza, come testo concreto nella sua strutturazione e nel suo stile, da non dissolvere ma da mettere in risalto con il film. Altro elemento imprescindibile è il rapporto tra immagine e sonoro. Se l’idea di un luogo comune critico sosteneva che l’immagine e il suono non dovrebbero mai raddoppiarsi, con Bresson la musica non completa l’evento mostrato, ma lo moltiplica come una cassa di risonanza. In questa vibrazione che genere frange e fessure si libera il significato profondo.
Bazin mette in evidenza due motivi teorici di rilievo: il primo è quello che lega il concetto di realismo cinematografico alla riproposizione del materiale in quanto tale, cioè mantenuto nella sua matericità; il secondo afferma che il cinema è un esplicito fatto di linguaggio, una sua condizione estrema che è la sola in grado di permettere al linguaggio del cinema di esibirsi in quanto tale. Il riferimento alla pagina bianca di Mallarmé e al silenzio di Rimbaud sono significativi: Bazin sembra desiderare il superamento di tutti i realismi della storia del cinema inaugurando una vera “rifondazione del linguaggio”. Avere coscienza del cinema come linguaggio, della sua storia e delle violazioni del linguaggio interpretate come segnali di poetica insieme ad una profonda consapevolezza metalinguistica in cui il cinema si apre a tutte le arti. Nel film “Journal d’un curé de campagne” si apre una fase nuova dell’adattamento cinematografico. Non si tratta di tradurre nel modo più fedele o intellegibile l’opera o di ispirarsi ad essa liberamente o con rispetto, ma di costruire attraverso il cinema un’opera di secondo grado, non un film paragonabile o degno di lui, ma un nuovo oggetto estetico come il romanzo moltiplicato per il cinema; il film non ingloba quindi il romanzo, ma lo lavora e non con un adattamento classico, ma con un modo teso ad aprire la strada a nuovi orizzonti per la settima arte in cui i diversi linguaggi esaltano le loro differenze e ravvivano le loro capacità di produrre senso.

Sintesi
Il rapporto con il romanzo e la sua trasposizione cinematografica.
Il film "Il diario di un curato di campagna"finisce con un'immagine grigia su sfondo grigio, di una croce e immagine di un romanzo che il curato invia al suo mentore improvvisato: un altro curato. Si sente la voce del curato che legge la lettera in cui il protagonista del film sta morendo e chiede al giovane collega spretato di assolverlo. E' in imbarazzo perché non è più prete e gli dice che non se la sente e il protagonista dice: "Che importa, tutto è grazia".
Per Bresson il romanzo è il materiale attraverso il quale costruisce il suo testo nel film.
Tutta la storia del cinema è percorsa con una problematica che è quella della narrazione o della trasposizione del testo. Il cinema è qualcosa attraverso cui si dispiega un'idea concepita precedentemente. Nel film la croce greca è simbolo, un simbolo ripetuto per secoli nelle chiese cristiane come pianta. Bazin dà all'immagine il valore di togliere: il suo valore non è l’aver rappresentato un simbolo, ma aver tolto l'immagine a vantaggio del testo. La sottrazione di immagine viene dalla stagione neorealista.
Ovviamente il cinema si avvale dei mattoni del linguaggio di un testo. Bresson prende il testo di Bernanoss e lo restituisce allo spettatore costruendo una sua visione, un'interpretazione profonda che scava nel significato vero del testo senza stravolgerlo; prendendo solo alcuni passaggi, ad esempio, per mostrare un'idea.
Il regista teatrale Jerzy Grotowski osserva l'attore che fa degli esercizi ginnici, una ginnastica che è corporea e psicologica e lavora su se stesso. Ryszard Cieslak che lavora davanti a Grotowski, con la gestualità e col fisico, mentre accanto a Grotowski c'è uno psichiatra (l'attore come materiale problematico è l'equivaleme nel teatro del moderno nel cinema)
Il mondo fenomenico nel cinema è il materiale problematico Lo stile moderno interroga il mondo,
il soggetto del film è il romanzo stesso, è la materia perché noi stessi siamo materia. E' quasi una scusa per interrogarsi su cosa o chi siamo, sul senso della vita. Tutto inizia con il neorealismo , lo scendere in piazza, l'interrogarsi sulla vita, la guerra ...Ritornare a casa, ritornare a se stessi "dentro" se stessi.
Il cinema è arte del tempo per cui tutti questi autori si stanno interrogando su cosa significa fare cinema come, ad esempio, Antonioni che riflette su ciò che significa accendere la cinepresa davanti alle cose.
Il disegno classico lascia spazio alla coscienza della morte e della corruzione e da questa c’è l'arrivo ad una malinconia contemplativa e di attesa. Il cinema di Bresson è un cinema depurato. Bazin è provocante ma allo stesso tempo convenzionale, egli vede la violenza nel cinema, Bresson è fedele al romanzo (il termine fedele è sbagliato ma è grazie a Bazin che lo rifiutiamo). Nel cinema la violenza è ovvia. Bresson procede per ellissi e litoti togliendo dal romanzo quella violenza a cui il cinema classico ci ha abituato; Clouzot, dice Bazin ne “Le Mystere Picasso” presenta un film a colori da cui il colore viene sottratto in quelle parti dove non c'è la pittura. Togliere quindi il colore là dove non è presente la pittura per lasciare al colore la sua importanza e marcare lo stacco tra i colori della pittura e i colori del mondo nelle loro infinite diversità.

CONCLUSIONE
Anche nel tratteggiare i possibili rapporti tra teatro e cinema Bazin ripropone questa attenzione all’elemento metalinguistico, al possibile confronto tra linguaggi, in cui il teatro sia assunto a “realtà” su cui il film lavora. L’adattamento cinematografico non deve condurre a limbi estetici che non appartengono né al teatro né al film in quel teatro filmato giustamente denunciato come il peccato contro lo spirito del cinema, ma portare sullo schermo la teatralità del dramma: il soggetto sarà quindi l’opera stessa nella sua specificità scenica. Quindi esaltare ciò che l’adattamento classico nega: la sua teatralità. Il film avrà per argomento non il soggetto, l’argomento trattato, ma la messinscena teatrale. Quindi il film non salta il pre-testo, ma lo lavora conservandolo nella sua MATERIALITÀ-SPECIFICITÀ, una specificità di linguaggio che il film sottolinea nel momento in cui esalta la propria capacità riproduttiva. Insomma, l’autore ricerca e sublima; scava sempre più profondamente, come il film fosse una sovrapposizione di trasparenti che lasciano intravedere che sotto c’è altro; una costruzione POLIFONICA o POLISEMICA in cui affondare nella stratificazione porta inevitabilmente a staccarsi da terra.
1.2 HENRI-GEORGES CLOUZOT
PAROLE CHIAVE: Livelli, tempo, creazione artistica, sottrazione colore, realtà, pittura

LE MYSTERE PICASSO Questo concetto è ben evidente in questo film di Clouzot e nel’affermazione di Picasso che osserva come bisognerebbe poter mostrare i quadri che sono sotto i quadri. Questo sarebbe possibile oggi con uno strumento digitale come Photoshop attraverso i livelli, sorta di trasparenti virtuali. Qui viene messa in gioco anche la dimensione TEMPORALE del dispositivo cinematografico. Picasso ripreso durante la creazione dei quadri, delle stratificazioni, Picasso stesso costruisce in stile contrappuntistico, l'ultimo quadro la verità nella profondità nel fondo del pozzo, nero, la notte, il pubblico, la morte attraverso la malinconia, la sublimazione dell'arte. Scavare allontanandosi dalla terra, attraverso la stratificazione polifonica della sovrapposizione dei quadri per arrivare alla sottrazione delle forme usate dagli stereotipi. Per Clouzot solo la CREAZIONE ARTISTICA costituisce l’elemento spettacolare AUTENTICO, cioè cinematografico allo stato puro. Pura “Suspance”. Grazie alle sue qualità ONTOLOGICHE, della conoscenza, CIOÈ LA CAPACITÀ DI RIPRODURRE TEMPO E SPAZIO REALI, il cinema realizza qui un’aspirazione della pittura ovvero la DURATA del procedimento creativo in una sorta di simbiosi tra i due linguaggi. Una simbiosi che però è CONFRONTO in cui i due linguaggi CONVIVONO SIMULTANEAMENTE senza mai sovrapporsi. Il quadro diventa quindi un MOMENTO della pittura, come il FILM diventa solo un momento del cinema.
Quindi che si tratti di pittura, letteratura o teatro il discorso è il medesimo; una riflessione sul linguaggio di arrivo nonché sul linguaggio di partenza ovvero la realtà su cui il film lavora, ma perché ciò accada è necessario che il cinema si costituisca in una sorta di “pre-testo” da interrogare.

1.3 IL CINEMA MODERNO SECONDO BAZIN
1- è interno al fatto stilistico e di linguaggio, è realismo dello stile e non dei contenuti riconducibile alla grande famiglia del formalismo e dello strutturalismo
2- intende per “realtà” non solo quella fenomenica, ma anche quella costituita dai materiali culturali lavorati dal film; quindi forma/materia e alla funzione che i materiali stessi svolgono nel determinare la forma
3- implica una precisa coscienza metalinguistica, cioè una riflessione sul linguaggio cinematografico e la sua storia. Quindi Realismo ontologico e coscienza dei linguaggi per aprire la strada a un cinema rinnovato e consapevole di se stesso, capace di rifiutare psicologismi e facili spettacolarità del cinema dominante.

CONCETTO DI SOTTRAZIONE e NEOREALISMO ITALIANO per Bazin sembra aprire una strada possibile per un cinema rinnovato capace di suscitare nuovamente emozioni e di “aprire una finestra sul mondo”. Questo attraverso una depurazione della forma, della sottrazione e del rifiuto dei modi facili. Ad esempio la violenza del linguaggio di Bernanos non avrebbe prodotto lo stesso effetto in un film classico, per via dell’abitudine alla violenza nei film; in questo caso l’unica cosa possibile era la sottrazione e l’attenuazione attraverso ELLISSI E LITOTE effettuata da Bresson in chiave antispettacolare. Stesso nel colore di “Le Mystere Picasso” che è presente solo quando c’è la pittura. Se il film fosse stato tutto a colori non ci sarebbe stata differenza tra i colori della realtà e quelli sensibili della tela. Non potendo creare un colore al quadrato era necessario sottrarre colore là dove c’è la realtà naturale. Quindi la pittura che è COLORE SOVRAPPOSTO AL COLORE DEL MONDO REALE conserva il suo cromatismo estetico.
Per Bazin la realtà come materiale su cui il cinema lavora può essere un romanzo, la letteratura, la pittura, il teatro E ANCHE la realtà sociale, la strada e la piazza dei neorealisti.

La posizione baziniana si può così sintetizzare:
1-     Non c’è stato “realismo” in arte che non fosse prima di tutto profondamente “estetico”; il realismo proposto dal cinema italiano dell’immediato dopoguerra è estetico un’evoluzione del linguaggio cinematografico, un’estensione della sua stilistica.
2-     I fatti tendono ad essere isolati dal continuum narrativo e vengono rotti gli automatismi produttivi e intellettivi del découpage classico. I fatti, in questo cinema, non hanno la funzione di servire la nostra immaginazione. Nel cinema classico il fatto viene aggredito dalla MDP, spezzettato, analizzato, ricostituito. In Rosellini i fatti acquistano un senso, ma non nella maniera di un utensile la cui funzione ne ha in anticipo determinato la forma. È un frammento di realtà bruta, un se stesso MULTIPLO ED EQUIVOCO il cui senso viene fuori solo a posteriori grazie ad altri fatti tra i quali lo spirito stabilisce i rapporti. Senza dubbio il regista ha selezionato i fatti, ma rispettando la loro integrità di “fatto”.
3-     Il neorealismo è tanto più efficace perché si oppone all’astrazione delle pièce a tesi: in Ladri di biciclette l’immanenza del messaggio non viene mai posta come tesi, il concatenamento degli eventi è sempre di una verosimiglianza rigorosa e anedottica.
4-     Per il neorealismo anche l’uomo è un fatto (tra gli altri al quale nessuna importanza privilegiata può essere data a priori)
5-     Di conseguenza questo cinema punta alla scomparsa dell’attore e della stessa recitazione; non è importante la recitazione tanto l’uomo si identifica col suo personaggio
6-     Punta alla scomparsa della messinscena
7-     Alla scomparsa della storia e delle drammaturgie tradizionali; abbandonando gli imperativi spettacolari e dipanandosi sul piano dell’accidentale puro.
8-    Fino alla scomparsa del cinema stesso; l’azione non gli preesiste come un’essenza, essa sgorga dall’esistenza preliminare del racconto, è l”integrale” della realtà. Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro: niente più attori, storia, messa in scena, cioè FINALMENTE un’illusione estetica perfetta della realtà: NIENTE PIÙ CINEMA. Procedimento, non ingenua “trasparenza”. Il neorealismo quindi anticipa ciò che definisce lo stile moderno al cinema: il nesso inscindibile che si stabilisce tra la riflessione METALINGUISTICA e l’esaltazione della qualità riproduttiva del DISPOSITIVO stesso. AUTORIFLESSIONE E RIPRODUZIONE sono già coniugate, se pur non esplicitate, nell’analisi baziniana rendendolo a pieno titolo il padre sia della Nouvelle Vague sia dello stile moderno al cinema.

CESARE ZAVATTINI
PAROLE CHIAVE: Un teatro-verità di massa che rompa la tradizionale triade autore-attore-regista, tv come cesura tra cinema e teatro e cinema e pittura, intermedialità, analisi del quotidiano per conoscere il fatto, mettere a nudo il cinema, dignità di tutti i fatti, cinema lampo, cinema d'insiemecinema d'incontro, pedinamento, stare in situazione, rapporto con kinoki e cinema del buco nel muro, bisogno di verità, soggetto sarà trovato durante il processo di realizzazione stesso, film inchiesta/verità, Cinema scientifico/rituale che crea una nuova antropologia da realizzare attraverso il cinema, conoscenza autentica non pregiudizi e miti della tradizione, cinema durante, MPD come la vita stessa, tutti registi, democrazia multimediale.

Per comprendere appieno il lavoro di Zavattini bisogna metterlo in rapporto con il concetto di stile moderno. Se infatti il cinema moderno è raccontato da un comune gesto di domanda portato sulle persone e sulle cose, a posteriori la proposta Zavattiniana ne rappresenta uno dei punti apicali. Tanto più se riflettiamo sul fatto che l'interrogativo della modernità non si accontenta dello status quo, ma pretende di criticarlo nella convinzione che il cinema possa contribuire a modificare le nostre condizioni di esistenza e perfino a costruire noi stessi. Zavattini intellettuale è centrale e fondamentale sopratutto in America Latina e Francia, ma anche in Italia soprattutto nel documentarismo più impegnato e consapevole. Zone minoritarie del cinema Italiano che in quegli anni andava allontanando il moderno. Le stesse sceneggiature Zavattiniane saranno meno avanzate e radicali della visione che Zavattini intellettuale immagina per il cinema e per la vita democratica.
Tutto questo in un contesto difficile dove governo con delle leggi restrittive e opposizione con una critica fortemente ideologizzata fanno sì che non ci sia una vera apertura al moderno. In quegli anni il cinema italiano è orientato alla commedia in costume con i suoi stilemi, le sue ricorsività, il suo legalismo di fondo anche attraverso metafore e caricature del potere che però di fatto ne diventano una legittimazione. Polemista, intellettuale di sinistra inviso alla critica conservatrice, egli mostra un'assoluta originalità di pensiero che lo rende inviso anche alla corrente progressista in cui egli auspica un passaggio dal neorealismo ad un realismo di stampo Lukacsiano. Parla di una incompiutezza dell'esperienza neorealista; per lui non si concretizza nelle opere e nei cineasti che operano nel dopo guerra, ma nell'idea che esse manifestano senza ancora realizzarla.

In un'intervista del 1965 (ma pubblicata solo nel 79) Zavattini ipotizza un possibile interscambio tra cinema, tv, teatro e pittura; quindi una possibile commistione tra linguaggi che rimanda a Bazin. Si chiede se il cinema può affrontare in una posizione di avanguardia il presente e per farlo configura un progetto di "teatro di massa". Un teatro-verità che rompa la tradizionale triade autore-attore-regista, in cui entrano persino gli stessi protagonisti della cronaca e della storia vivente e dove gli stessi attori sono tutti insieme autori-registi e attori. Se questo viene fatto è però necessario che sia visto dalla maggior parte di persone possibili e per farlo bisogna ricorrere a tutti i mezzi possibili come la TV che può essere la cesura tra cinema e teatro (e viceversa) cinema e pittura (e viceversa). Un'affermazione che anticipa la moderna intermedialità. Il teatro-verità come il cinema-verità: due linguaggi che si modellano l'uno sull'altro. Questo cinema segnato dal concetto di "pratica" è un cinema nuovo, originale (maieutico) che provoca la vita, di interscambi, di informazioni, di prese di coscienza sulle realtà del paese. Già nel 63 era stato realizzato il "Cinegiornale della pace" e tra il 68 e il 71 si sarebbero diffusi i "Cinegiornali liberi" altra iniziativa Zavattiniana. Questo è ricollegato direttamente da Zavattini al neorealismo che dà inizio ad un profondo rivolgimento cinematografico in primo luogo linguaggio e strutture economiche. Un cinema che sperimenta nuove forme linguistiche e produttive contrapposte al sistema hollywoodiano. Anche se sicuramente precedente è tra il 50 e il 52 che prende forma questa idea di cinema completamente neorealista e strutturalmente "altro" rispetto alle regole standardizzate. Questa idea si esprime nei concetti di analisi (l'analisi e la ricostruzione del gesto quotidiano per conoscere il "fatto" su cui si vuole riflettere), film lampo (a basso costo e spesso con mezzi di fortuna), durata (tentare di rappresentare la reale durata del dolore umano). Bisogna avere coraggio di scegliere le storie buttare quelle che non vanno bene, bisogna altresì guardare al futuro e raccontare ciò che è in divenire, ciò che sta accadendo, dall'interno quasi come un reporter; solo così facendo tutto diventa degno di essere raccontato. La MPD deve trovarsi in mezzo agli eventi; il cinema diventerà per tanto una pratica in atto, in mezzo alla vita a quello che accade, anche e soprattutto improvvisando e il soggetto sarà sostituito dall'uomo nella sua interezza, mentre vive e il racconto non deve essere "inverato" dagli artifizi con cui il cinema è fatto. Il discorso attraversa le tante idee che Zavattini ha proposto per indicare la sua idea di cinema: le formule del "pedinamento", del coinquilino, del cinema d'incontro del cinema d'insieme che insistono sullo "stare in situazione" che tanto affonda le sue radici nel pensiero esistenzialista. Il suo è un cinema che tenta di stabilire relazioni con la vita, conciò che è l'uomo, con ciò che cerca l'uomo. Un cinema antropologico e antropomorfico che tanto anticipa le formule del cinéma-verité mostrando molto bene quanto il neorealismo sia connesso con le diverse nouvelles vagues internazionali. “Roma città aperta”, “Ladri di biciclette”, “La terra trema” sono film rivoluzionari non perché si occupano della realtà, ma perché mettono a nudo il cinema stesso, l'interconnessione tra film e reale come in un work in progress cercando i valori originali del linguaggio cinematografico. Un tentativo, un inizio di smantellamento del linguaggio tradizionale verso il grado zero della scrittura cinematografica. Difficile per Zavattini perché il contesto italiano era più chiuso di quello ad esempio francese. Conoscere per trasformare attraverso la MPD che è uno strumento di trasformazione più in grado di produrre conoscenza attraverso un linguaggio, quello cinematografico,  tendenzialmente alla portata di tutti, senza retoriche, collegato idealmente ai kinoki vertoviani che giravano e filmavano tutto. Egli auspica in effetti un cinema fatto per conoscere dove tutti i giovani sono spinti a cercare, conoscere, in quella che viene definita la "poetica del buco nel muro". Anche questo testimoniare, cercare fatto da molti per molti, anticipa in un certo modo anche quella che è oggi la Rete. Nel 1953 a Amore in città e a Siamo donne (Ingrid Bergman, Isa Miranda, Alida Valli, Anna Magnani)  e nel 1963 il Cinegiornale della pace, documentario che anticipa i Cinegiornali liberi del 68. Egli esorta i giovani registi a tentare nuove forme di cinema critico. Nei suoi cinegiornali non c'è CINEMA DIRETTO è un cinema sempre formalmente costruito con un'attenzione attenta a tutti i livelli. I soggetti devono trattare tutti gli argomenti, non solo quelli politici, ma anche ad esempio quelli culturali in cui lo spettatore sia considerato al pari dell'autore, una sorta di coautore e non semplicemente uno spettatore passivo. Inoltre egli auspica la nascita di una vera e propria rete di centri in cui i giovani possano operare nel cinema con il loro impellente bisogno di verità, di contestazione, di critica in un loro iter di conoscenza che diventa azione.

È all'azione che sono rivolti i nove Cinegiornali liberi conservati nell'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. In essi vengono trattati temi di attualità molto importanti; sono riportate le testimonianze del terremoto in Sicilia, lo sciopero della Fiat del 68. Il cinegiornale libero di Roma n°1 in cui nei suoi 8 episodi viene denunciato il sacco di Roma ad opera della classe politica e il ruolo della Chiesa nell'omertà, ripercorrendo anche la storia recente di alcuni misfatti del governo democristiano, ironizza sul consumismo, sul sessismo e la discriminazione cui sono soggette le donne in Italia; ma discute anche nella sua casa con un gruppo di giovani cineasti sulle pratiche del cinema libero. Nel Cinegiornale libero n°5 si ricostruiscono attraverso interviste i fatti di Battipaglia che portano all'uccisione di due dimostranti da parte della polizia; Cinegiornale con un incontro con Don Mazzi e la sua comunità, VAJONT 2000 condanne che ricostruisce le responsabilità della tragedia del 1963; infine Roma 1969 in cui si ricostruisce, seguendo le linee del sindacato, la vicenda della chiusura di una tipografia che negli anni 60 era sta espressione del boom economico. Firma 7 episodi che mostrano una notevole attenzione alla forma o Roma amor giocato per 3 minuti e mezzo su un'unica immagine della cupola di San Pietro e su un sonoro carico di significato. Quello che domina nei cinegiornali è un'apertura totale al mondo in cui il cinema deve riscrivere la sua storia e inventare il suo linguaggio. Il cineasta-uomo dovrà essere disarmato di fonte ai fatti e il soggetto sarà trovato durante il processo di realizzazione stesso in una forma di osservazione partecipante spazzando via la temporalità del découpage classico. Su questo concetto di durata Zavattini osserva che più che passare da un fatto all'altro si ha la necessità di restare sul fatto. Ogni singolo fatto può essere l'intero film. Restare sulla scena trova analogie in certi piani-sequenza del cinema moderno o nella preoccupazione con cui Renoir non vuole interrompere la recitazione dei suoi attori. Il fatto di mostrare la realtà senza usare l'artificio del montaggio non è ben visto dall'industria e dalla politica. Tutto deve restare superficiale, edulcorato, alterato. La realtà stessa è alterata. 

Il film inchiesta/verità è per Zavattini importantissimo; per lui i fatti non nascono da soli, ma perché li si osserva, li si vive, vi si partecipa; questo rende questo cinema un cinema che tende all'analisi. In effetti in un cinema analitico, in cui non accade nulla, vengono rivelate mille cose, mille verità nascoste, il tutto attraverso una temporalità dilatata che ne ricalchi quella reale o ne diventi una sorta di estensione, Un Cinema scientifico/rituale che crei una nuova antropologia da realizzare attraverso il cinema e non la letteratura. Dal cinema di Rouch, padre del cinema verité, antropologo e regista documentarista che ha vissuto e documentato a lungo l'Africa, riprende il discorso intorno alla scientificità e alla ritualità. Nel convegno del 1962 a Firenze parla apertamente di una nuova antropologia da realizzare mediante il Cinema anziché attraverso la letteratura; un cinema scientifico che prediliga la conoscenza autentica delle cose anziché basarsi su pregiudizi e miti tramandati dalla tradizione. Insomma, un cinema dell'istante, ma anche un cinema del frammento di realtà dilatata indagato perché manifesti i suoi sensi più nascosti. Un cinema che tenta di non atomizzare l'essere umano, di trovargli  un'unità e rapportarla creativamente al mondo. Il fare cinema "durante" non significa cambiare soggetto, ma cambiare vita, approccio, modo di vedere. Quindi un cinema del "soggetto pensato durante": pratica moderna per eccellenza, vitale, esistenziale, dell'essere cineasti. Se Vertov aveva parlato del cinema come nuovo alfabeto e di un nuova lingua universali, che grazie ai Kinoki sarebbero diventati di competenza delle masse, Zavattini auspica un nuovo cinema realizzato da una moltitudine eterogenea di protagonisti e sottratto al professionismo tradizionale.

La grande campagna per il Cinegiornale della pace che doveva realizzarsi con i contributi dei lettori di Rinascita e l'eterogeneità dei linguaggi in cui quei contributi potevano essere formulati: oltre al cinema, la fotografia, la registrazione sonora, la scrittura sono uno degli esempi di quell'utopia che anticipa gli odierni concetti di Rete e di Interattività. Noi osserviamo l'uomo e lo filmiamo nella concretezza del suo istante, nella concretezza del momento che non ha bisogno di picchi narrativi per essere raccontato, quasi a ritornare all'origine del cinema, quando ogni cosa era degna di essere ripresa.

Quando l'obiettivo della MPD per la prima volta aperto alla luce del mondo con l'entusiasmo e la curiosità di un bambino è stato il momento più promettente e incontaminato, liberando la realtà dai miti costruiti nel tempo che l'hanno sepolta. In questa anticipazione di rete e interattività riecheggiano utopie che si erano succedute dalle avanguardie in poi; anche la "fattografia" di Brik anticipata nel brano "La fissazione del fatto" del 1929 in cui si sostiene che il cinema crea il mondo, anzi ricrea il mondo scoprendo gli uomini e le loro emozioni che si dispiegano come tavole sinottiche, fatte da riassunti da cui è possibile avere visibili tutti gli argomenti in modo simultaneo e compresente. Cerca e trova scenari nuovi nelle proprietà del dispositivo cinematografico. L'analisi di Zavattini si accorda oltre al cinema Ejsestaniano anche con quello di Godard. È proprio in questo autore che l'intellettuale italiano vede questa urgenza del racconto che si manifesta ad esempio nella luce finale di “Soigne ta Droite” o nell'impossibilità da parte del produttore italiano di “Passion” di capire quale è il vero soggetto del film. Sempre Zavattini nel suo Diario cinematografico vede in Godard l'urgenza del filmare come racconto, ricerca continua fusa e non scollegabile dalla vita stessa arrivando a sostenere che il regista arriverà a fare un film al giorno, anzi, a non poter più fermare la MPD tanto essa diventerà la vita stessa.

Nel 1965 ipotizza i cinegiornali proibiti in una sorta di generalizzato fare filmico in mano a tutte le persone che dispongano di una MPD inconsapevoli artefici di una realtà analitica realizzata attraverso un mezzo potente e pervasivo di cui non conoscono nemmeno le possibilità, talmente intimoriti dal cinema grande. Comunque tutto questo porterebbe a disporre di un materiale enorme, un dispiegamento del reale in ogni forma, non selezionato preliminarmente, un mezzo profondamente umanistico in cui viene mostrata la molteplicità  degli uomini nel tentativo di conoscenza, comprensione e tolleranza reciproca non meno che del perseguimento della giustizia economica e sociale.

La sfida per la costruzione di una democrazia anche multimediale è quella che trova esempi anche oggi: Il primo lo troviamo in Wim Wenders LA CULTURA E LA SALVAGUARDIA DI CIÒ CHE È PICCOLO, PERCHÈ È LÌ CHE SI PRODUCE LA MASSIMA DENSITÀ DI SENSO per l'operazione mediatica, in quanto lì si produce la connessione della cultura con la vita di ciascuno di noi e la salvaguardia delle diversità culturali. Il secondo in un libro del 2000 di Milena Gabanelli e dedicato a Zavattini in cui racconta, in un capitolo intitolato Un giornalismo a basso costo, un giornalismo durante, le modalità produttive e realizzative della trasmissione Report. Attraverso le inchieste in cui i giornalisti hanno seguito i personaggi anche mesi si delineano le idee Zavattiniane; un cinema a basso costo dove meglio un operatore anziché tre, o ancora un cinema durante documentato nello svolgersi magari avendo sempre con se una camera, per ascoltare a metri di distanza un giornalista con un truffatore in una sorta di cinema del buco nella porta.

Sintesi
Cinema dell’istante, del buco nel muro, la critica a lui contemporanea ha visto in Zavattini un vulcano che metteva in gioco mille cose, ma non si pensava che fosse un teorico anche se in forma diversa lo è stato. Ha dinamizzato il campo anche in questa operazione di animazione culturale, ha disegnato possibilità che erano corrispondenti a quello che era il cinema come dispositivo. Mino Argentieri ha curato tre volumi molto importanti. Zavattini è l'equivalente di Bazin in Italia. Parla del teatro verità di massa nel 1965. Tutto il cinema proposto da Zavattini va nella direzione di cinema verità. Propone intorno alla metà degli anni 60 cinegiornali liberi con giovani registi "Siamo Donne" film per eccellenza di Zavattini. Rompere i confini diventa sempre più necessario, un cinema che sconfina nelle altre discipline, nelle altre arti come pittura e teatro. La cinepresa guarda davanti, guardare dietro è contro natura. Non farà più la pindarica acrobazia di guardare dietro, ma raccontare avanti. “Storia di Caterina” è il cinema che racconta una storia realmente accaduta e raccontata dai protagonisti. I cinegiornali sono in mezzo alle persone e al mondo. Questa è la lezione del neorealismo: stare dentro alla realtà e alle persone come un inviato speciale. Non è rinunciare alla forma, ma crearne un'altra che riveli la caratteristica del cinema di restituire il pro filmico (anche rifratto, deviato, restituito)

CINEGIORNALE Amore che si paga di Carlo Lizzani (ep 1)
Prostituzione. Cinegiornale ricostruito in studio. Zavattini è un antifascista anche se, durante il fascismo, non si schiererà mai apertamente. Il film lampo non ha bisogno di quella carovana di gente e mezzi del cinema industriale, il cinema lampo deve essere a bassissimo costo, deve rompere gli impacci formali ed esprimere la sua attenzione al prossimo più velocemente del libro, del quadro, della musica. Andare fuori, in mezzo alla gente, in mezzo agli eventi (questo è il significato di film lampo) La storia di Caterina ne è l'esempio più alto.Nel 1963 e nel ‘68 vengono registrati molti cinegiornali che fanno vedere quello che accade; ci sono i cinegiornali universitari degli studenti che mostrano le lotte, gli scontri e poi ci sono i cinegiornali liberi di Zavattini presi da storie vere, ma rimesse in scena.
Un “CINEMA DI INCONTRO”, che si realizza quando si incontrano con la cinepresa le immagini che ci circondano, in cui è presente la reale durata del dolore umano. La durata sta nel cuore di quello che verrà elaborato dal nuovo cinema internazionale tra il 60/70. Zavattini anticipa questo concetto. Egli è spesso lasciato ai margini, ma è fondamentale. Il cinema italiano ha rifiutato l'idea di cinema Zavattiniano, ha rifiutato questo senso estetico così profondo preferendo spesso la mediocrità, lasciando la qualità ai festival. Il neorealismo non parla di momenti evidenti e famosi, ma parla di momenti singoli, di particolari, di diversità nelle pieghe della storia, dei fatti. Fare il “DURANTE” non significa fare un'altro tipo di cinema, ma un altro tipo di vita.
Zavattini è alla ricerca di pratiche che nella rete trovano il loro compimento, ma anche in alcune attività televisive. Zavattini dice: l'uomo è lì davanti a noi a rallentatore per accertare la concretezza del suo minuto. In Zavattini c'è l'occhio nuovo. Trovare nelle forme il loro valore originale. Non ci sono più gerarchie di valori come nella letteratura o in altre di forma d'arti diverse. Tutto è degno di essere fissato sulla lastra. (BAZIN Anche l'uomo è un fatto tra gli altri!!!) L'importanza del neorealismo non è tanto nei film che parlano di verità o di ricerca della verità, ma nel fatto che mettono a nudo l'intero processo del fare cinema, la creazione del film stesso, un work in progress che tenta di smantellare il linguaggio tradizionale fino ad arrivare all'essenza, al GRADO ZERO della scrittura cinematografica. Possiamo trovare un forte legame tra il cinema concepito da Zavattini e i Kinoki Vertoviani che andavano in giro in strada per conoscere, vedere, osservare e registrare tutto quello che li circondava (tanto da essere definita con spregio da alcuni POETICA DEL BUCO DEL MURO). Nel 1953 con Amore in Città, un'inchiesta a episodi sulla sessualità dei giovani romani e con "Siamo donne" film-confessione su 4 dive (Alida Valli, Ingrid Bergman, Anna Magnani e Isa Miranda) Zavattini mostra compiutamente il suo senso estetico. I suoi cinegiornali liberi (che non sono mai in forma di cinema diretto in quanto presentano un commento fuori campo) sono una sorta di esortazione per i giovani cineasti a sperimentare, a tentare nuove forme di cinema critico con tematiche non solo politiche, ma anche culturali in cui lo spettatore non è solo passivo. Nei 9 cinegiornali (di cui ne firma solo 7), uno solo avrà una distribuzione (seppure limitata) quello intitolato “Apollon, una fabbrica occupata”. I Cinegiornali, in cui si respira il '68 raccontato in una forma metalinguistica vicina al cinema contemporaneo internazionale (Godard/Bertolucci) affrontano varie tematiche quasi tutte di carattere prettamente politico (Terremoto in Sicilia, Sciopero Fiat 68, Cinegiornale libero di Roma-Sacco di Roma), uccisione di due dimostranti operai a Battipaglia da parte della polizia, Don Mazzi, Vajont.
Alfredo Guarini - Emma Danieli, Anna Amendola/ Gianni Franciolini - Alida Valli/ Roberto Rossellini - Ingrid Bergman/ Luigi Zampa -Isa Miranda/ Luchino Visconti - Anna Magnani/
Michelangelo Antonioni "Amore in città" episodio "Tentato Suicidio"

Zavattini dice che contro il découpage classico il neorealismo propone un nuovo linguaggio, una nuova durata dell'attenzione, un cinema a basso costo, come strumento di comprensione delle cose, un cinema di tanti fra tanti, sociale, che vive delle e per le persone.
SIAMO DONNE le donne sono esse stesse materia del cinema il film più Zavattiniano.

MICHELANGELO ANTONIONI
PAROLE CHIAVE: Margini, vuoto, silenzi, arte, gesto e materia, raccordo ritardato, perché del cinema, uscire dal quadro, morte, vedere come costruzione, l’arte è l’uomo, lucida ricerca, interrogazione, estetica è vita, relazione tra esperienza, percezione e conoscenza problematica.

Il cinema di Antonioni è un’altra tessere del cinema moderno. Un cinema che inquadra la vita dai margini attraverso il vuoto, i silenzi e numerosi raccordi a comprensione ritardata, come quello di professione reporter in cui la protagonista, sul’auto, si gira per vedere chi insegue Jack Nicholson; la camera indugia e ci dà l’inquadratura che stiamo aspettando, molto dopo il cinema convenzionale, lasciandoci un senso di spaesamento e di interrogazione. Antonioni è anche pittore; si trova a vivere in un periodo di grande fermento creativo dove l’obiezione antifigurativa costituisce il grande fatto artistico del secondo dopoguerra. Di questo movimento il “gesto” e la “materia” appaiono come le coordinate fondamentali. Da un lato le combustioni e gli strappi nella iuta di Burri, dall’altro il dripping di Pollock, le paste di Fautrier, le sabbie di Dubuffet o le ceramiche di Leoncillo. La materia non rappresenta semplicemente l’occasione per l’emergere della forma, ma il territorio stesso del lavoro formale, il luogo al di fuori del quale, prima del quale, non ha nemmeno senso parlare di forme; il tutto acquista senso soltanto all’interno della pittura, nella concretezza dell’operare artistico. Dirà Ungaretti a proposito dei lavori di Fautrier che questi non sono imitazione della natura, fa come fossero vita vivente della natura, particolari casi nuovi, indimenticabili, della natura stessa. Spezzando i ritmi usuali del cinema classico, Antonioni inaugura un’operazione di scavo che è interrogazione senza compromessi sul valore del veder, sul senso del fotografare, sulle ragioni del gesto del cineasta che invita il pubblico a riconsiderare la realtà che lo circonda, in un’osservazione attenta, capillare e disincantata e al tempo stesso produttrice di nuove magie e nuovi incantesimi. I momenti di sospensione dei suoi film sono quelli in cui si attua la massima concentrazione di senso, per affrontare alla radice il perché del cinema, del perché vedere e perché mostrare. Le suo opere pittoriche “Montagne incantate” sono piccole immagini su carta ad acquerello e collages che Antonioni esplode mediante il blow-up per mostrarne i componenti essenziali, in una sorta di “atomizzazione” che rende l’immagine a metà tra artigianato e scienza, tecnologia ed emozione. Queste apparenti contrapposizioni in realtà sono strumenti perfettamente coerenti e necessari per un anima che fa della ricerca permanente il suo modo di esistenza. Il suo è un cinema in divenire, in cui la realtà è in formazione, in cui si aprono nuovi spazi per la conoscenza. Questo “estetismo” è assai più innervato nella realtà sociale di quanto non fossero le ideologie che si combattevano per determinare valori e stili di vita dell’Italia del dopoguerra. L’opera di Antonioni è processo di definizione del fare cinema, come l’Informale è processo di definizione del fare pittura (e scultura). Nel suo cinema si entra nel regno dell’immagine riproducibile, un’immagine estremamente costruita, un’immagine che tende in ogni momento a farsi quadro. Il suo modo di girare è indicativo della sua idea; raccontava di andare sul set, di osservare, di restare solo in silenzio e lasciare alle cose il potere di dargli dei suggerimenti; insomma il regista si cerca nei suoi film, film che non sono pensieri fatti, ma pensieri che si fanno, in divenire. Racconta che nel ’59 ha avuto l’esperienza di aver messo l’occhio dietro una cinepresa all’interno di un manicomio. Il film non venne realizzato, ma l’impatto dell’alienazione e della malattia hanno segnato profondamente il suo lavoro. Questo senso di alienazione trova espressione dei cieli vuoti nel file “L’eclisse”, nelle nebbie di “Identificazione di una donna”, nelle sabbie di “Professione Reporter”. Gioca sempre tra narratività e antinarratività relazionando sguardo e racconto liberandosi dagli schemi in spazi e tempi che sembrano diluirsi all’infinito. Questo montaggio libero poeticamente è fatto con accostamenti, lampi di immagini isolate e apparentemente senza significato, ma che in realtà danno idea di quello che il regista vuole esprimere. L’immagine vuole creare anche un rapporto tra quello che è il fondo e i personaggi, ponendo quindi Antonioni in rapporto, quindi, non solo con l’informale, ma anche con l’arte figurativa successiva.
I punti in comune tra il suo cinema e l’informale sono comunque molti. 1 - C’è innanzitutto il rifiuto della metafisica e un’adesione all’immanentismo radicale del ‘900, 2- Una profonda interrogazione tra materia e forma, 3- un approccio radicale nel confronto con la materia per la costruzione di nuove significazioni, 4- un rapporto problematico tra memoria e storia 5- ispirazione e improvvisazione tratta direttamente dal confronto con i materiali.
Questo porta inevitabilmente ad un’apertura totale dell’opera al mondo, un uscire dal limite bidimensionale del quadro per arrivare alla vita, un prolungamento delle poetica dell’informale nella vita di tutti giorni fino ad arrivare al sociale, dall’assoluto all’umano. In questo indagare l’interrogazione di fondo resta il rapporto tra cinema e materia, cinema come dispositivo, oggetto culturale che produce effetti attraverso l’artificio e la metabolizzazione dei modelli culturali in voga, come il ready made in Blow up dove il protagonista acquista un’elica e la ricontestualizza facendola diventare opera d’arte. Il discorso sulla conoscenza passa anche attraverso spostamenti di significato realizzati mediante tecniche raffinate. In questo senso è esemplificativa la scena finale di Professione Reporter. Qui l’interrogativo passa da quello sullo spettacolo della morte a quello sul macchinario attraverso passaggi di inquadrature che passano da un racconto soggettivo ad uno oggettivo per arrivare alla conoscenza. La morte nella tragedia classica veniva nascosta al pubblico, sottratta alla narrazione e restituita solo  nel suo effetto conclusivo con il corpo immobile del protagonista mediante l’espediente dell’ekkùklema, una piattaforma rotante che consentiva l’improvvisa apparizione dello spettacolo della morte. Antonioni rivela l’interrogativo sulla morte e sull’indissociabile conoscenza mediante l’uso di grate, già utilizzate in passato in diversi monumenti funerari dove essa rappresenta il passaggio all’oltretomba. Attraverso un’inferriata Locke osserva la celebrazione di un matrimonio e ripensa al suo, ormai morto. Anche durante la fuga da Barcellona i protagonisti sono ripresi attraverso una grata: questa quindi si identifica con il mezzo-cinema e con l’interrogativo sulla visione che gli è collegato. Vedere attraverso la grata diventa vedere attraverso il cinema; la griglia diventa la “quarta parete” la “finestra sul mondo”, un luogo di autoriflessione che lo “stregone” ribalta facendo passare l’attenzione dalla diegesi all’autoriflessione esistenziale. Il concetto di “vedere” è altrettanto importante. Vedere le cose come accadono è un’illusione, le cose le vediamo “come ce le costruiamo”, attraverso quello che siamo e la nostra esperienza. L’esempio del cieco non è casuale; il cieco che riacquista la vista è felice, ma subito dopo comincia a guardare il mondo e vede il brutto “morale”, lo sporco. Il mondo che aveva immaginato eticamente è diverso da quello sensibile, se è vero che noi costruiamo un idea del mondo attraverso l’esperienza è altrettanto vero che questa esperienza è imprescindibile da quella sensibile. Quindi c’è un’indissociabilità di conoscenza e costume, di considerazione gnoseologica e considerazione etica. Allo stesso tempo il percorso tortuoso e labirintico per arrivare al Palazzo Gaudì sembra insistere sulle difficoltà esistenziali che sono le stesse che troviamo nel tradurre le ambiguità delle opere d’arte, la loro polisemia, la loro follia nel senso di non discorsivo, non narrativo , non verbalizzabile. Questo passare dalla diegesi all’emergere prepotente dell’autore ci dà il senso stesso del film attraverso la fuoriuscita dalla narrazione che porta all’interrogazione tra diegesi e “altro” della diegesi. Il ricorso all’oggetto “difficile” costituisce un segnale che la relazione tra ESPERIENZA, PERCEZIONE e CONOSCENZA è problematica; indica le nostre capacità di vedere e allo stesso tempo l’insufficienza del nostro vedere, la nostra spinta verso la conoscenza e la difficoltà di un nostro accordo con il mondo sensibile. È per questo che la morte in questo film non è figura solo esistenziale ma soprattutto gnoseologica. L’arte è quindi lontana dalla nozione idealistica di bellezza come campo separato dell’attività umana. L’arte è l’uomoL’estetica è vita, racconto, verità, storia, scelta: arte trascendente, non separata, ma “vita moderna”, stile moderno in cui Antonio fa sempre una lucida ricerca, allontanando sempre qualsiasi forma di rassicurante liturgia cinematografica. Il cinema è piuttosto ricerca, atto stesso della formalizzazione, laica, centrifuga e moderna.

Sintesi
Antonioni dipinge e fa fotografare i suoi dipinti, li fa diventare dei blow up, li fa esplodere in fotografie abbastanza grandi che vengono esposte a Roma alla Galleria Nazionale di Arte Moderna.
Crea arte materica a cavallo tra il figurativo e l'informale ... l'informale in particolare va a scavare questo elemento, cioè quale è la forma che il cinema può dare al paesaggio. Stessa cosa fa Burri che cautelizza le sue plastiche con la fiamma o quando strappa le sue tele di sacco ... sta cercando di dare forma a materie inusuali per la pittura.
L'amico di Thomas (nel film Professione Reporter) dice che a un certo punto il quadro viene fuori da se. Ungaretti analizza il lavoro del pittore Jean Fautrier e dice che non è imitazione della natura, ma vita vivente della natura. L'artista lavora e pensa per proprio conto e cerca se stesso. A volte, poi, la materia inizia a parlare. Antonioni fa lo stesso con il cinema. Arriva sul luogo dove deve girare e si interroga sul punto in cui nasce la forma ... aspettando che si compia il miracolo. Non è un demiurgo che dà ordine alle cose, ma un uomo che innesca un processo che lo supera, che va oltre quello che lui stesso è. È lui il primo spettatore di questo processo che proprio attraverso di lui si compie. Anche l'uomo è forma ... l'autore, il vero autore è sempre in gioco, con le mani in pasta.
Molto importante da Professione Reporter
Il cieco che riacquista la vista, si rifiuta di guardare e si uccide. La protagonista dice quanto sarebbe brutto essere ciechi. La grata è un segno di tutto il discorso che il regista fa. Varcare la soglia ...
ma anche guardare da fuori. Per la ripresa finale di 8 minuti circa Antonioni crea un gioco di gru, giroscopi molto sofisticato passando attraverso una grata tagliata. La musica è particolare e monodica, praticamente soggettiva.
Anche in un film di Mikhail Kalatozov del 1964 Yo soy Cuba la MPD varca la soglia, sale un palazzo, attraversa una strada, si innalza e oltrepassa la grata di un balcone e poi vola sulla folla come a rappresentare l'anima di un giovane rivoluzionario morto.
Ad esempio in “Identificazione di una donna” l'astronave descrive un semicerchio e si allontana ...  come fa la MDP nel finale di Professione Reporter. Lucio dice: “e dopo? l'astronave è un puntino che scompare in mezzo al calore ....”
Antonioni spinge il suo cinema fino al dubbio In BLOW-UP  numerosi zoom, dettagli, realtà e irreale creano disorientamento e c’è un gioco tra realtà e irreale. Ricercare e sperimentare e provare a dimostrare che fotografare può essere socialmente utile; o ancora il dubbio in “Professione Reporter” dove sono presenti numerose inquadrature apparentemente insignificanti.

ERIC ROHMER
PAROLE CHIAVE: Natura e Realtà, esaltazione autore, astrazione, poesia, potere dell’istante

Rohmer in Vanité que la peinture dà una prima definizione di classicità: Si chiamano classici i periodi in cui la bellezza secondo l’arte e la bellezza secondo la natura sembrano essere tutt’uno. Questo accordo di arte e natura sarà sempre un punto essenziale del discorso di Rohmer sul cinema in quanto arte classica e sarà centrale nel saggio Le celluoїd et le marbre. Si può dire che la natura è per Rohmer il referente ultimo del cinema in quanto arte e si può stabilire un’equivalenza tra natura e realtà anche se equivalenza imperfetta. Questo perché per Rohmer la realtà non è solo il referente ultimo del cinema, ma anche il referente primo. Egli non vuole seguire il cammino degli artisti improntati alla “rivolta” e alla “lacerazione”, ma dice che un accordo tra natura e arte può realizzarsi con il cinema perché, in certe condizioni, permette di avere “occhi ancora nuovi”. Per Rohmer la “natura” è il mare, il cielo e al tempo stesso “l’immagine dei grandi sentimenti umani”. Un’immagine sola in cui la natura è rappresentata contemporaneamente da fenomeni e sentimenti. Nei suoi film restituirà adattamenti da testi letterari che seguono la direzione del saggio di Bazin, o ancora c’è l’identità tra “gli occhi di tutti i giorni” e gli “occhi nuovi” che ci ricorda Zavattini di “il cinema alla prima apertura dell’obiettivo alla luce del mondo”. In Vanité que la peinture Rohmer contrappone alle altre arti che conoscono la distruzione della classicità e si chiudono su se stesse esaltando l‘”autore”, il cinema che può entrare nella classicità grazie ad uno sfruttamento più sottile e coerente delle sue risorse tecniche e del suo linguaggio. Solo il cinema può, a suo avviso, mostrare l’essere e le cose come sono. Il primo esempio di film classico per lui è “Nanouk” di Flaherty, dove il regista riesce a “conferire all’istante quel peso che le altre arti gli negano” e il pathos dell’attesa, che qui non è espediente, ci introduce nel cuore della comprensione delle cose”. Qui questo è possibile perché il punto di vista è quello della caméra, un occhio obiettivo che porta il film al “mistero stesso del tempo”. Rohmer entra quindi in questo discorso di moderno se pur in modo del tutto originale legata principalmente al discorso relativo al potere dell’istante e alla temporalità del cinema. Dirà “Nulla guarisce meglio del cinema l’artista da questo amore di sé che ovunque lo uccide. Un autore che è tanto più tale quanto più si decentra e lascia spazio alle cose. Si tratta quindi di una dialettica tra il punto di vista dell’autore e quello di una meccanica radicalmente oggettiva, al posto della VITA STESSA. L’autore è tanto più tale quanto più accompagna coscientemente l’aleatorietà del cinema considerato come vita, in cui entra il caso come momento particolare della vita. A proposito di Traité de Bave et d’Eternité di JEAN ISIDORE ISOU, inventore del Lettrismo, Rohmer scriverà che, al di là del tono provocatorio, traspare il desiderio rispettoso di sollecitare le cose QUALI ESSE SONO. Isou dirà nel suo “Esthétique du cinéma” che la settima arte dovrà passare da una fase d’amplique (ampliamento) ad una ciselante (incidente, scalpellante) inaugurata, dice, dal suo film Traité de Bave et d’Eternité. Rohmer scorge dietro le immagini per cosi dire “Indifferenti” di questo film, l’unica possibilità di un intervento non ingenuo agendo direttamente sulla particella di base, l’inquadratura nel suo stadio pellicolare, mostando la grande menzogna dentro la quale è preso ogni tipo di immagine al cinema. Il montaggio discrépant, fuori sincrono, ci staccano dalla fotografia e dalla sua realtà creando un’attesa frustrante che abbatte le convenzioni dell’immagine. Il mostrare diviene quindi il mezzo per ritrovare il pensiero di un territorio, quello delle immagini e della cultura. Rohmer parla di cinema come canto: il cinema mostrando il mare come è, ci dispensa dal nominare: si può solo tacere. Le metafore sono inutili o meglio, se la poesia ha perso il segreto del potere metaforico, forse il cinema è il solo e legittimo rifugio della poesia. È pienamente metaforico solo quello che rivela la presenza delle grandi leggi dell’Universo; non quelle scientifiche, ma quelle degli antichi che si compiacevano di celebrare i fenomeni dell’ordine vegetale, minerale, umano, solido, liquido o celeste, materiale o spirituale. Questo quindi è rivelazione di una presenza spirituale: la poesia. Pone attenzione anche all’uso della musica. La pura astrazione dell’arte irrappresentabile e la fascinazione del concreto del cinema hanno il potere di agire direttamente sui nostri sensi, sul nostro animo e sottrarlo a se stesso come la più raffinata delle droghe. È razionalista, ma i suoi film sono permeabili e fondono razionalismo e leggi della natura, in un dialogo costante tra razionalismo e vita che però resta sospeso, solo possibile. Possiamo cogliere anche un’alta differenza tra Rohmer e i suoi antagonisti come Rivette e Godard. Per Rohmer l’autore è tanto più tale quanto più si nasconde e decentra; per Godard l’autore è l’occasione per una tematizzazione della creatività in generale e motivo implicito di riflessione, per Rivette tutto è esplicitamente tematizzato e motivo implicito di riflessione. Quindi in Rohmer, se pur problematicamente, c’è una disponibilità a far sì che di manifesti un “essere” ancora orientato alla metafisica.

Sintesi
La pittura ha scelto la strada della rivolta ed è ben diversa da quella che il cinema può offrire a chi la sa far parlare nel modo giusto. Dice Rohmer "Io sono per il cinema classico" cosa è la bellezza del classico? La bellezza secondo l'arte e la bellezza secondo la natura sembrano essere tutt'uno.
Rohmer non intende il classicismo dei film americani ma Murnau, Strohmer. Lavorava all'Etoile in ambienti lussuosi, dove c'erano ragazze giovani che parlavano e discutevano...i suoi film sono così, come la Francia di quegli anni. Fa un cinema a basso costo ... poca musica ... idee esistenzialiste ... anche cattoliche. Sostiene che il cinema ci consente di riscoprire la nostra emotività di fronte ad un mare e ad un cielo inquadrati. Un cinema capace di fare OCCHI nuovi che si stupiscono di fronte alla vita e a al mondo. L'arte contemporanea canta ... il cinema può mostrarci le cose come sono .... il cinema è arte del tempo. Il regista ci invita ad operare affinché le cose vadano così! Rohmer osserva l’autore e dice: “Autore, malgrado te e il tuo IO IO IO IO ESISTE tutto questo ...”
L’autore non è quello di ”Elephant” di Gas Van Cent dove l'autore è Dio, per Rohmer il cinema è la vita, il relé che permette alla vita di rilanciarsi continuamente.Jean Isidore Isou regista opposto a Rohmer inventore nel 1942 inventore del LETTRISMO. Egli crea un cinema discrepante, in cui l'immagine è dimenticata in favore del suono … come sarà il cinema del futuro? Russo, americano o Italiano? Un film stupido? Le immagini vengono tagliate, graffiate, la voce è deformata, al contrario e una litania ipnotica fa da sottofondo. Il film è sostanzialmente diviso in due parti, una prima in cui l'autore effettua un discorso sul cinema e una seconda in cui Jean Cocteau parla di un discorso amoroso. Rohmer tratterà, come tutto il cinema francese, il discorso amoroso a differenza di quello dove è sempre presente il discorso storico. Il cinema per lui è il solo e legittimo rifugio della poesia, quando rivela la presenza delle grandi leggi dell'Universo che ci superano sempre.

ALAIN RESNAIS
PAROLE CHIAVE: Tempo, dissonante, rimosso, memoria, nessun protagonista, allontanare routine e cliché, frammentazione, antipsicologista

Per capire Resnais è bene metterlo a confronto con Eric Rohmer. In Resnais i materiali di realtà sono molteplici e variegati e assumono il ruolo di personaggi del film stesso, inoltre a differenza di Rohmer siamo in presenza di un dialogo tra un dichiarato impegno politico e quella dimensione della memoria che è caratteristica dell’intera opera di Resnais e che mette in gioco la temporalità La principale differenza tra i due cineasti è nel diverso funzionamento della temporalità che in Rohmer è dispiegata come una presenza “qui e ora” con materiali tutti diegetici, mentre in Resnais è soglia di carattere mentale, talvolta psicoanalitico che si dà nel montaggio libero di materiali diegetici ed extradiegetici e visivi a contrappunto. Resnais presente un rimosso che non si riesce a portare a coscienza.

Il tempo + un affioramento continuo, e continuamente interdetto, di una memoria che non è solo individuale, ma anche e soprattutto collettiva trascinando lo spettatore in un gioco paradossale di partecipazione ed estraneità. Il film tratta del conflitto franco-algerino, le cui conseguenze sulle coscienze dei cittadini francesi erano ben tangibili in quegli anni. Non preoccuparsi delle intersezioni e delle contraddizioni è lo stile del film è annotato all’inizio del copione di scena. Un film dissonante come in dissonanza lavora lo stile della modernità: il tempo, il ritorno del rimosso, brandelli di memoria del vissuto che si incarnano in brandelli di cinema. Il film procede per flash densi di materia e insieme fantomatici aprendo ad un nuovo rapporto con la coscienza in una sorta di teatro d’appartamento scansionato dalla musica evocativa e ricca di cluster fatta da Hans Werner Henze facendo diventare il film stesso un processo di orchestrazione lucida e disarmonica nella quale cerca, senza possibilità alcuna, di farsi strada la verità. Il contrappunto è dissonante alla radice e i personaggi diventano note di una costruzione polifonica senza melodia alcuna.

Nessuno è protagonista, né il regista, né lo sceneggiatore. Siamo vicini anche se in un contesto diverso di una sintonia con il concetto di autore in Rohmer. Nessuna identificazione per lo spettatore, neppure temporale che il film chiede con forza, un superamento del tempo storico e della coscienza. Una densità che allontana le routine dell’assuefazione ai luoghi comuni e dei miti sociali del momento. Muriel quindi sintetizza l’istante in cui ci rendiamo disponibili a che la Storia e la nostra coscienza personale si accordino e ci motivino all’agire morale consapevole. Questo avviene attraverso una scelta stilistica radicale e coerentemente perseguita lungo tutto il suo tragitto: il montaggio di frammenti materici articolati secondo differenti temporalità e disposti tutto lo stesso piano.

I PROTAGONISTI: La musica di Henze. Un vero e proprio protagonista che irrompe compostamente fondendo vecchio e nuovo. La voce del soprano Rita Streich si insinua come un ago sulla musica a tratti stridente; è spiazzante come ogni intervento musicale anche quando viene utilizzata per sottolineare. Una musica che invita a non chiudere gli occhi e sollecita il riaffiorare la memoria, l’amore perduto e la paura di amare. Boulogne-sur-mer La città entra in gioco spesso in modo extradiegetico: inquadrature della stazione di notte, poi di giorno, un hotel sempre nei duo momenti della giornata, un casinò, una vecchia via, in modo del tutto decontestualizzato. Poi tre personaggi che avanzano verso la cinepresa in modo allucinatorio. Bernard il giovane che è tornato dalla guerra in Algeria, Alphonse che è stato il marito di Hélene.

Tutto procede in modo frammentato e luoghi e tempi non sembrano coincidere mai. È all’interno di questo montaggio volutamente disordinato in cui si intrecciano le azioni dei personaggi nel quotidiano e sprazzi di memoria, che Bernard proietta il film con immagini dell’Algeria in cui racconta della tortura inflitta ad una ragazza chiamata Muriel. La ragazza è stata uccisa da Robert e Bernard non ha fatto niente per impedirlo. Jean chiede dove sia finito questo Robert e Bernard gli dice che è lì a Boulogne, come tutti. Jean prosegue dicendo “ Ci sono cose di cui non si sa nulla. Quando poi si inizia a scavare … ma io non esco mai dalla mia tana). Le immagini volutamente casuali sottolineano questa indifferenza della quotidianità, messa otto accusa, quotidianità di un’immagine cinematografica e anche televisiva complici nel loro silenzio e nella loro mistificazione dei delitti del colonialismo.

Ed è come se proprio questa quotidianità fosse la vera protagonista del film: nella sua indifferenza nella sua mancanza di focalizzazioni, nel trascorrere di un tempo che sostituisce l’economia della vita (delle vetrine) alla vita vera, all’assunzione di responsabilità a ciò che viene taciuto. Quindi, fare piazza pulita delle falsità quotidiane e ricostruire MEMORIA e RESISTENZA. I principali personaggi in carne ed ossa sono dieci e tutti affondano in una storia sociale e personale confusa, in un tessuto urbano irriconoscibile.

Tutti persi nell’economia della vita, in un grigiore che è conservazione biologica senza luci e con molta oscurità. A Resnais non interessa la psicologia dei personaggi, semmai il disporsi finalmente all’anamnesi, al ritorno del rimosso. Tutto assume significato solo all’interno della città, come se i protagonisti fossero solo delle escrescenze indecifrabili e frantumante di un tessuto acefalo. Indecifrabili a meno di una forte presa di posizione morale, possibile solo a patto del riconoscimento della verità; un riconoscimento coraggioso che richiede una ricerca che investe il privato (intrecci e legami amorosi), il sociale (sviluppo della città, le demolizioni, le dissennate ricostruzioni che ne cambiano il volto) e il politico (le guerre, l’Algeria).

Sintesi
MURIEL: AFFIORAMENTO SEMPRE INTERDETTO IL TEMPO DEL RIMOSSO
Contrapposto a Rohmer. Si tratta di trovare un metodo e questo deve riguardare lo stile. Alla scoperta del mondo, tutti gli autori del moderno cercano, non raccontano il loro punto di vista, ma cercano di capire. Materiali di realtà, cultura, materiali artistici etc. Resnais è un ottimo esempio. Appartiene al cinema sperimentale a cui Rohmer guarda con un po' con sospetto, ma ce lo dice con Isou che si schiera più a sinistra. L'elemento che a Rohmer colpisce negativamente è la presenza continua dell'autorialità l’io io io che deve raccontare le cose per come sono senza mostrarsi. In questo film sembra esserci autore. Un film sul tempo, sul ritorno del rimosso, del rimosso sociale importantissimo che è la guerra d'Algeria di cui la Francia non vuole prendere atto. (Le petit soldat di Godard - vietato fino alla liberazione dell'Algeria 63 - e Adié Philippines di Jaques Rosier del ‘63 che non subisce tagli).
Per Muriel si rivolge a Jean Cayrol (con il quale aveva già affrontato il tema della memoria e dell'oblio dei campi di sterminio nazisti). La guerra d'Algeria è spietata, l'OAS. Non ha un protagonista ma molti protagonisti,ben 10 nessuno dominante sugli altri anche se c'è una sorta di gerarchia, ma sono assunti come dati di realtà. Un personaggio è la musica di Henze,

Un altro personaggio è la città e le sue vie. Si è immersi nel tempo, nei ricordi che affiorano e vengono stroncati, nelle memorie, un film totalmente costruito dal regista che dispone tutto in modo matematico, emozionale eppure completamente razionale. Il giovane Bernard vedrà un vecchio film girato da Louis Malle. Alfonse mente, ma anche gli altri sono immersi nella menzogna, una menzogna che viene nascosta come la città che viene distrutta e ricostruita in modo illegale come il palazzo che cammina e viene giù dalla collina. Il film è frammentario come Godard e l'ultimo Renoir. La Nouvelle Vague è fatta di un film lucido che vuole capire la vita, la vita sociale, le classi sociali; è fatta dai giovani borghesi ma i film chiedono conoscenza, lucidità. La borghesia viene messa di fronte a sé. Tutto è giocato sul concetto di chiudere gli occhi per non guardare ... egli dice: “Non chiudere gli occhi”. La tortura di Muriel e la sua uccisione da parte di Bernard che si confessa. La confessione avviene attraverso il cinema, anamnesi, presa di coscienza dell'orrore della guerra d'Algeria. Bernard sa di essere colpevole come Robert ... Disvelamento dei rapporti sociali. Vedere chiaro nella vita, nei rapporti, nella verità, nella realtà. Non ci si identifica con nessuno. François a Alfonse dice di finire le frasi...  questo è l'aspetto morale...  prendere consapevolezza della storia,  delle debolezze, di essere sinceri fino in fondo... c'è il ricordare e far venire alla coscienza la consapevolezza.

JEAN RENOIR
PAROLE CHIAVE: Il teatro, palcoscenico e set, attore, cinema arte della permeabilità, metodo all'Italiana,non essere sentimentali ma veri, attore quasi sogno nel sogno che Renoir non interrompe con tagli, cinema come palcoscenico del palcoscenico, Mise en scène sia set cinematografico sia palcoscenico teatrale, stare sul set non è vivere, chi è un autore di cinema, c’è un medium tra autore e la sua arte la mpd, l’autore di cinema mette in forma il materiale come fa il poeta con le parole. il cinema è vita in atto, identità superficie e senso, rifiuto degli psicologismi negli attori che sono esattamente ciò che sembrano, essere allo stesso tempo i costruttori di un testo allo stesso tempo in cui il testo li sta costruendo come uomini, scatole cinesi.

L'inizio del cinema è strettamente collegato al teatro. Il cinema appena nato, considerato poco più che un divertimento, veniva utilizzato e proiettato nei teatri prima dello spettacolo (un po' come le sinfonie con il melodramma) o anche con vere e proprie trasposizioni o messe in scena della messa in scena. Quello che è interessante è tentare di analizzare i film che riflettono sulla messinscena teatrale come gioco dell'artificio, come figura di ogni finzione e in definitiva come figura dell'atto creativo. Si può provare ad interrogarsi sulle analogie di fondo tra le pratiche dei due linguaggi e di cui possiamo renderci conto osservando il teatro del corpo e lo stile della modernità. Innanzitutto le pratiche teatrali nel 900 ci lasciano la consapevolezza che la materia dell'espressione teatrale è l'attore, il corpo dell'attore. E' nella sua relazione qui e ora con lo spettatore che risiede la specificità del teatro. Come il teatro del 900 porta il qui e ora in contrapposizione al teatro classico, così il cinema moderno porta il piano sequenza e la profondità di campo in contrapposizione al découpage classico. Il moderno problematizza la concezione classica di TEMPO facendolo coincidere il più possibile con il tempo reale e lo SPAZIO cercando di essere indipendente dal racconto e preservare la materialità del referente, cioè dell'oggetto a cui ci si riferisce, aggiungendo qualcosa.

Nel moderno cinema come palcoscenico teatrale e finzione attoriale/teatrale si intrecciano sempre. C'è l'idea del teatro del ‘900 in queste inquadrature lunghe e nel rifiuto della frammentazione della recitazione. Fulcro del cinema di Renoir è il rapporto con la teatralità e con l'arte dell'attore e dell'attore in quanto uomo. L'uomo è fatto di materiali unici e irripetibili e in questo senso il cineasta fa un lavoro più arduo dell'artista in quanto mostra materiali resistenti alla formalizzazione. Per Renoir il cinema è arte della permeabilità in cui il regista dispiega la drammaturgia dei materiali da cui egli stesso è costruito. L'attore Renoiriano è per tanto molto simile a Renoir, ne è l'immagine speculare e come il regista si mostra disponibile ad essere plasmato dalle cose, l'attore si mostra disponibile ad essere plasmato dal personaggio.

LA DIRECTION D'ACTEUR PAR JEAN RENOIR 1968 - Giselle Braunberger
Renoir fa recitare un'attrice con il metodo all'Italiana, invitandola a non enfatizzare ma a leggere come fosse un elenco telefonico; questo è un processo maieutico, un'indagine attraverso il dialogo per far nascere dall'attrice il vero personaggio: le dice di non essere sentimentale o graziosa, ma vera e forte.  Deve lasciare alle spalle tutto quello che ha appreso in accademia, tutti i cliché e le sovrastrutture e lasciare che il personaggio lentamente si presenti in una sorta di scoperta creativa. Il regista è presente, ma quello che è importante è che la vita faccia irruzione nel film; l'attore insomma incarna quasi un sogno nel sogno in cui Renoir, a differenza del découpage classico, non effettua tagli di alcun tipo di taglio o interruzione. 

LE PETITE THEATRE DE JEAN RENOIR
Il film è diviso in 4 episodi in cui ad ogni inizio il regista viene inquadrato vicino ad un elegante teatrino delle marionette. Dietro le quinte c'è il cinema (palcoscenico del palcoscenico) che diventa un tutt'uno con il teatro in una sorta di continuità tridimensionale. È interessante il fatto che il termine francese Mise en scène indichi sia il set cinematografico sia il palcoscenico teatrale. Un cinema che è esso stesso teatro con un set, un luogo vitale in atto dove è impossibile separare le riflessioni sul cinema da quelle sul teatro, quest'ultimo diventa quindi una metafora della Mise en scène teatrale. Razionalista, intellettuale fatto uomo, per lui stare sul set non è cosa diversa dal vivere è essere in presenza di un evento che ti supera, qualcosa che non hai previsto e preordinato perché avverrà il miracolo della recitazione e non lo governi, ed è questo il bello, il fatto di non potere e volere dominare tutto. La permeabilità dell'ambiente; so che sono costruito dall'ambiente sono il risultato di quello che mi è accaduto. Fa parte di coloro che hanno lottato tutta la vita per affermare che un regista di film è anche un autore come quello di letteratura e che il film è il prodotto dell'azione di un autore. Detto questo si interroga su chi è un autore di cinema? Ognuno è il risultato di quella che è la sua esperienza. Già detto da Tarkovsky un formalista russo. I formalisti russi dicono che il cineasta è un punto di intersezione di linee generate fuori da lui. Il cinema al contrario di quanto avviene nella poesia ha una componente tecnologica esterna con cui il cineasta deve relazionarsi, c'è un mediatore tecnologico oggettivo, meccanico-chimico tra il me autore e la mia arte. Anche le parole sono materiali e il poeta, l'autore le mette in forma. Mettersi in relazione con le cose e metterle in discussione; egli non esita, è critico con se stesso, ma il momento esistenziale per lui sono le riprese; puoi anche riprendere con più di una cinepresa; non fa campo contro-campo, mette le persone insieme e le fa dialogare. 240 inquadrature invece di 600 circa; fa inquadrature lunghe perché non vuole interrompere l'attore, vuole che il personaggio nasca dentro l'attore e per farlo bisogna dare il tempo; se non lo si fa l'attore ripeterà se stesso. L'attore si fa con il metodo all'italiana come se si leggesse l'elenco del telefono fino a che avviene il miracolo,finché l'attore trova il suo personaggio. Il regista considera l'attore uno strumento per dire delle cose, ma parzialmente.

LE ROI DI'YVETOT - LE PETIT THEATRE
È un modo di indicare cosa per lui è il cinema, è vita in atto ed è teatrale perché vita in atto e la vita in atto è il set tra attori, personaggi, regista, padrone di casa - come nella regola del gioco in cui Renoir che fa l'attore accompagna e segue tutto. Dice Rivette che il set Renoiriano è tridimensionale a 360 gradi perché sul set accade un evento e l'evento è la nascita di un personaggio nell'attore e il regista è il primo spettatore e lo costruisce come uomo e come regista. Piccole rivoluzioni da camera da letto ... il Re Pigro che non vuole conquistare terre ma vivere saggiamente ... il film è dedicato alla tolleranza, ma anche contro l'ipocrisia della società.
Cercare di essere veri e non sentimentali. Il cinema di Renoir è Brechtiano, razionalista, un cinema che utilizza l'intelligenza per affrontare e recuperare il discorso amoroso; non dobbiamo essere sentimentali, ma essere e cercare la verità; solo così ha un valore quello che facciamo.

LA CHIENNE
Il teatro avvolge il cinema, ovvero, il cinema, come teatro, mostra la commedia umana e può essere una forma di teatro in atto. La cinepresa diventa un occhio che cerca di restituire le superfici per come sono nella realtà, giocando come un vero e proprio attore che accompagna e rilancia l'azione

TONI 1934
Questo film rappresenta un ulteriore arricchimento del cinema renoiriano e un punto di non ritorno. Qui vengono mostrati per la prima volta i personaggi della vita quotidiana, della realtà contadina, i braccianti fatti migranti dall'emigrazione; le riprese en plein air, una commistione di lingue come francese provenzale, corso, italiano, spagnolo.

LA GRANDE ILLUSION
In questo film troviamo il teatro raddoppiato: la prima volta è una vera e propria messa in scena teatrale prima in uno spettacolo per divertire i prigionieri del campo,  poi  il nobile che suona il flauto per distrarre il nemico. Il teatro è un momento di liberazione, in un connubio tra finzione e libertà; l'illusione di qualcosa che può essere solo sognato, l'utopia di uno stato di natura all'insegna della fratellanza e della comunicazione.

LA REGLE DU JEU - 1939
La cinepresa sembra aderire materialmente alla sostanza stessa del discorso: al campo/controcampo del découpage classico Renoir sostituisce la ripresa in continuità che permette di cogliere il legame tra gli esseri umani, lo spazio che c'è tra loro, l'aria che respirano.
Qui tutto è teatro, il principio stesso di costruzione del film che realizza la perfetta IDENTITÀ tra superficie e senso che egli cerca costantemente nella sua opera e rappresenta la grande lezione che egli lascia alla storia del cinema. C'è il rifiuto degli psicologismi negli attori: essi sono esattamente ciò che sembrano. I personaggi sono i  continuo movimento seguiti costantemente dalla MPD in un continuo cambio di punti di vista e movimenti.  Emerge forte l'elemento dionisiaco contro l' ipocrisia borghese; un dualismo inevitabile, ambiguo, dietro e davanti alla cinepresa, demiurgo e marionetta di processi più grandi.

LA CARROZZA D'ORO 1952
(film brechtiano in cui Renoir riflette sull'arte dell'attore - poi French Can Can sull'arte della regia)
Film girato nel 1952 dopo il suo periodo Statunitense, un film girato interamente a Cinecittà che ricorda la permeabilità del cinema. Siamo tutti costruiti dalla vita che ci ha formato. Il cinema e prima la fotografia ci ricordano il concetto di autore. Usa la commedia dell'arte per riflettere sull'attore e sul metodo all'italiana; questo film è anche un modo per Renoir di conoscere l'Italia, Cinecittà e la Magnani (è il periodo di Europa 51 e Viaggio in Italia di Rossellini - che ha come stager Trouffaut che chiamerà la sua casa cinematografica Carrosse in omaggio a questo film). C'è un'analisi sui poteri, sulla chiesa che sono argomenti già utilizzati in The River e che lo avvicinano alla spiritualità degli indiani d'America. Sono tutti film autobiografici in qualche modo, perché attraverso la  pratica del cinema danno una testimonianza di ciò che gli sta accadendo. Cineasti come Renoir sono teorizzatori di un modo di fare il cinema della permeabilitàessere allo stesso tempo i costruttori di un testo allo stesso tempo in cui il testo li sta costruendo come uomini. Il set è il palcosccnico della vita. Inizia e finisce col sipario con un ritrarsi della cinepresa, con la scena tridimensionale in cui si è svolta l'ultima parte ad una scena prospettica disegnata su un sipario intermedio verticale che cala dove si ripete rappresentata la stessa scena. Infine si chiude il sipario rosso. Odoardo Spadaro fa un discorso sull'arte della scena alla Magnani: "Non perdere tempo con la vita reale. Tu appartieni a noi: attori, saltimbanchi, mimi. Tu puoi essere felice solo sul palcoscenico, in quelle due ore in cui ti trasformi in un'altra persona.  (cala il sipario rosso,  Camilla resta da sola) e solo allora diventi te stessa. " ... quale è la vita reale? Dove inizia il teatro e finisce la vita? Il vescovo viene presentato come l'arbitro; fa un discorso in cui la religione è strettamente intrecciata con la politica. La teatralità è molto profonda, non è la citazione del teatro, il cinema per Renoir è il set della vita, la vita in atto quasi un happening metalinguistico. Egli indica quindi una strada per cui il cineasta si fa attraversare dalle cose e non come un sapiente onnisciente. Per la religiosità c'è il fidanzato ufficiale Felipe nobiluomo spagnolo, che ad un certo punto parte per la guerra contro i pellerossa anche perché le cose con Camilla non vanno bene. Viene fatto prigioniero dagli indiani, impara a conoscerli e ritornato da Camilla la invita a trovare la verità in mezzo alla foresta dove vivono gli indiani. I tre uomini di Camilla sono molto identificati, il Re (il potere), il Toreador (vuoto), Felipe (sognatore). Nella scena finale don Antonio dice alla Magnani :i tre uomini sono scomparsi, ora fanno parte del pubblico, li rimpiangi?" e lei risponde "un poco" La protagonista quindi sceglie il teatro, consapevole delle regole del gioco che accompagnano la vita reale. Vita che diventa vera sul palco, in quello spazio e in quel tempo della messinscena finito il quale si ritrae.  La vita vera quindi è proprio quella del teatro quando un attore è consapevole del gioco di finzioni che è la sua regola.  Tutto in un gioco di scatole cinesi dove il teatro, simbolicamente nel sipario iniziale e finale, contiene il film, Renoir racchiude Camilla e la MPD racchiude tutto. In un cinema né come contenitore,  né come manipolatore, piuttosto come CATALIZZATORE ATTIVO DEL PRO FILMICO (cioè tutto quello che sta davanti la MPD)
Piketty - Il capitale nel 21° secolo

LA PALUDE DELLA MORTE- Renoir non vuole fare un film di genere, egli vuole andare sul campo, i fatti sono i fatti, non possiamo raccontare un luogo o una storia senza essere lì. Nel cinema classico il fatto viene aggredito dalla macchina da presa, spezzettato e rimontato attraverso il montaggio analitico, il fatto viene riempito di astrazione. Il fatto non è uno strumento per raccontare, gli strumenti hanno una forma.Neorealismo - è comunque e a priori cinema perché c'è estetica

JACQUES RIVETTE
PAROLE CHIAVE: Il luogo, rappresentazione in atto, tridimensionale, tre tempi, preparazione, realizzazione, spettatore, realismo, film come prisma di rifrazione del pre-testo, il luogo e il teatro, Io nello specchio, mdp come intermediario, autore demiurgo, erranza, Parigi, ordine della morte sul disordine della vita,

Niente avrà avuto luogo se non il luogo. Queste parole invitano ad interrogarsi sul “luogo” manifestato dai suoi film. Ogni film di Rivette appare tanto più organizzato quanto più tende a disarticolarsi, a disorganizzarsi e riorganizzarsi nei discorsi che gli spettatori fanno su esso. La vita accerchia e attraversa il film da ogni parte e in ogni punto. Il farsi del film , il procedimento è azione vissuta, rappresentazione in atto. Veri film tridimensionali, nel senso più profondo del termine, i film di Rivette vivono di un’unica vita scandita in tre tempi contigui e interconnessi: la preparazione, non di rado operata collettivamente in un rapporto vitalissimo con gli attori, quello della realizzazione, del farsi progressivo del testo filmico nel rapporto attuale con la cinepresa, il set, gli interpreti; quello infine del lavoro dello spettatore, che il testo esige e senza il quale non avrebbe senso. Il tutto è quindi un risultato nuovo e originale che dà valore al procedimento, dal quale trae a sua volta il proprio valore. In lui il concetto di “realismo” è un’apertura totale e perfettamente in equilibrio che consente al film di essere prisma di rifrazione del pre-testo verso gli spettatori. Se non si è in linea con lo spettacolo, allo spettatore non arriverà il senso profondo, la verità dell’operazione, il gioco degli attori, dell’autore, del testo e del pre-testo; non arriverà in poche parole la vita.
Il cinema che filma il teatro può essere teatro esso stesso: la pratica rivettiana appare qui in perfetta sintonia con quanto si è avuto modo di osservare sulla teatralità del cinema moderno, anzi appare come una delle sue forme più compiute. Il cinema che filma il teatro è tentativo di cogliere il senso stesso del rappresentare. È sperimentazione sul senso dell’esprimere, in cui l’origine, da interrogare, è simultaneamente e profondamente in noi e fuori di noi. Questo nel tentativo di far riemergere il rimosso di ciascuno di noi.
Se lo stadio dello specchio definisce, nella rilettura lacaniana di Freud, il momento dell’individuazione dell’Io proprio con l’immagine dell’altro, quello di rivettiano può essere visto come la ripetizione infinita di quel momento che mai si definisce compiutamente. Da qui un’attesa sempre delusa di un’immagine che il regista non vuole si formi e a cui sostituisce l’operare della cinepresa. Il suo gioco è quello di volerci essere, ma sempre attraverso un intermediario. La sua è una ricerca che assume l’andamento di un vagabondaggio in percorsi labirintici dove Rivette è maestro della dissimulazione di se stesso. Lui mette in moto i procedimenti della riflessione in una forma prepotente demiurgica e sovrana come i protagonisti delle sue storie implicati nell’instaurazione dell’ordine della morte. L’erranza è la forma scelta per tentare il contro complotto cui i suoi personaggi/attori invitano lo spettatore; l’erranza è anche la forma dell’impossessamento di Parigi, la casa dove tutto dovrebbe essere permesso, il luogo di tutte le curiosità e i giochi e che invece ristabilisce ineluttabilmente l’ordine della morte proprio là dove a giocare vorrebbe essere il disordine della vita. Parigi quindi appartiene a Rivette ed egli appartiene alla sua scrittura cioè il cinema. Conseguentemente Parigi appartiene al cinema, anzi Parigi è il cinema. Niente avrà avuto luogo se non il luogo!

LA BELLE NOISEUSE In questo film la pittura è un fiume che scorre, la vita che scorre. Il cinema di Rivette finisce per somigliare ad un ufficio/casa mobile che segue il fiume in tutto il suo corso. Come tutti i film di Rivette anche questo non racconta, è piuttosto la traccia della mise en scène di un rapporto di seduzione reciproca tra un uomo e una donna. È la serie delle prove che devono dar luogo al formarsi della verità attraverso un gioco identificatorio senza fine. La pittura preesiste all'atto del dipingere. La Belle Noiseuse non esiste, come quest'opera possa produrre una realtà è il mistero di questo film. È il tentativo di "essere" nel fare e nel far fare. Essere coscienti della vita vivendola. Un rapporto amoroso tra il pittore e la modella, un plagio reciproco che può solo portare a dar forma alla verità attraverso l'unico modo possibile di esistenza del vero: la Bellezza. Tutto preesiste, il bello preesiste. L'unico modo che ha l'artista per dargli corpo è il movimento, l'atto creativo, la rivelazione, la fondazione di Dio. L'unico vero referente del cinema di Rivette è la scena della messinscena. Il trauma per Lacan non è il sesso, ma il linguaggio. Il linguaggio manca di un significante. Gli esseri umani tutti, anche quelli che non parlano, sono traumatizzati dall'incontro con il linguaggio. L'inconscio è un linguaggio senza codice. Io (me stesso reale) altro (me allo specchio) Altro (madre e gli altri).
È l'impossibilità di essere realmente se stessi se non attraverso un processo che porti alla lotta identificatoria con l'altro, un bisogno e un desiderio incolmabile dell'Altro. Fenhofer, il pittore, ha bisogno di Marianne per identificarsi e per tirare fuori la forma della bellezza. La verità su tela quindi sarà la verità della modella moltiplicata per quella del pittore. Il risultato è qui di l'emergenza, il desiderio mai sazio del'Altro. Ma tutto questo è fiction, la verità è che gli attori sono personificazione del pittore e della modella nei loro ruoli di film e attori e il cinema, come la pittura è il preesistente. Questo è un processo che si realizza tramite la messa a nudo del gioco della creazione, dove Rivette lavora sul formarsi dell'immagine di sé nell'operare della cinepresa dovrebbe  coscienza di sé e coscienza del mezzo sono sinonimi. Il cinema diventa il mezzo che definisce la sua disponibilità verso l'altro. Il cinema diventa il medium per eccellenza, riproduttore dell'altro allo specchio nello sguardo dell'io reale. L'atto del dipingere diventa quindi un rito funebre, nel quale Fenhofer seppellisce la sua opera sostituendola con una più quotidiana e accettabile. Ogni atto creativo diventa quindi un'immortalazione del soggetto, una piccola morte in cui si fissa per sempre quel momento. Il tutto rimanda poi al gioco dello spiazzamento in cui ruoli, protagonisti, regista, arte, cinema, forme, si rincorrono in un gioco dove tutti tendono a prendere il posto di tutti ed emergono teatralità, vittoria della morte e storia in una nuova tessitura della modernità.

Sintesi
LA BELLE NOISESE
Sceneggiatura scritta di giorno in giorno
Tentativo di racchiudere tutta la vita in un quadro. Nonostante tutto la versione breve è un racconto che della versione originale conserva solo alcuna traccia. La versione originale è un film di immersione in cui lo spettatore è trascinato dentro il testo e lo spettatore può accettare o rifiutare e su questo Gioca Rivette. Un gioco di messa in presenza di un evento che si svolge e richiesta di entrare allo spettatore al gioco. Rivette è il più Renoiriano. Qui c'è un gioco con la creatività con la pittura spesso usa il teatro. Il tema della creatività ha a che fare con la soggettività. È la messa in presenza di un rapporto di seduzione tra il pittore e la modella; tema antico della pittura. Il pittore e la modella rinviano al procedimento di costruzione del testo da parte di tutti quelli che creano il testo che è molto più tangibile nella versione di 4 ore. I tre sceneggiatori scrivevano il film via via che il film si faceva immersi in un'atmosfera notturna; questa atmosfera notturna in cui si fanno tentativi di far nascere una forma. La presenza degli sceneggiatori fa sentire un fuori testo, una presenza forte. Il tema è la seduzione dentro il gioco della creatività e il tema della soggettività ad esempio quando la modella vede il quadro che giudica freddo tanto che il pittore lo murerà. Monet: Non si dipinge ciò che si vede o nono si vede, ma il fatto. Ogni quadro diventa una scommessa esistenziale per arrivare alla verità. La verità è una forma. La scommessa esistenziale di fare Forma (Lacan - il soggetto si dà nel momento del simbolico, al livello del simbolico, del linguaggio, della forma e si dà come scoperta che noi viviamo sempre in una triade Io, altro e Altro - quando scopro l'alterità, nello specchio stando in braccio alla mamma riconoscendomi riconoscendo la mamma. Questo binomio ha bisogno di una legittimazione e viene da questo Altro con la a maiuscola che è l'assoluto, Dio. E' questo criterio che è cercato dall'arte. Ma da dove viene il desiderio di conoscermi?). C'è quindi nel film Pittore, modella e Altro. E' questo che garantisce il senso a tutto.
Per Rivette il teatro è il luogo del raggiungimento della forma e quindi della verità. Il criterio di verità primo rivettiano è il cinema stesso. E' questo fare il film che fa trovare la verità agli attori; loro si cercano. La mise en abyme, sogno nel sogno, è profonda.
Il racconto si scriveva da se io faticavo a stargli dietro ... tutta Parigi mi appartiene ,,, e io appartengo alla mia scrittura --- è la mia scrittura che mostra la mia idea (pag 223) Che differenza c'è tra la forma e la morte? Quando lui mura vivo il quadro. Il pittore dice che reagisce male di fronte alle cose che finiscono. (tutto finisce come il ritratto, il film, la vita)

CONCETTO DI AUTORE
ALEXANDRE ASTRUC
(Cahiers du Cinéma, introduzione al numero dedicato a A.Hitchcock 1954)
Quando un uomo da 30 anni racconta sempre la stessa storia, un'anima alle prese con il male risulta difficile non ammettere ciò che è industria.

RENOIR 1974
La storia del cinema è stata all'insegna della lotta dell'autore contro l'industria, finalmente si riconosce l'autore come un romanzo o un quadro. Ma chi è l'autore? L'orgoglio ci fa credere all'individuo sovrano. Ognuno i noi non esiste di per sé ma in virtù degli elementi che hanno accompagnato la sua formazione. L'autore è il soggetto dell'operazione artistica; autonomia dell'arte  rispetto alla scienza e alla tècne. Il 900 mete in discussione il concetto di genio: 1- psicoanalisi frattura del soggetto,sviluppo delle scienze, interconnessione tra arte, fotografia e cinema esse esaltano la presenza del Mondo, esaltano la mediazione tecnica. Nel 900 nasce la fenomenologia nel valore di relazione tra soggetto e materiali fenomenici.Brik diceva che si preferiscono le forme brevi epistolari legate alla quotidianità e il romanzo è in crisi.
Bahuaus, teatro del corpo, informale action painting,musica dodecafonica, informale,avanguardie.
Il cinema è mezzo di riproduzione che ci dice che c'è il mondo, una tecnica, delle operazioni e un
SOGGETTO PROBLEMATICO (punto centrale). Il cinema esalta l'importanza del mondo e le operazioni tra soggetto e mondo

LASZLO MOHOLY-NAGY 24/25
Prima del soggettivo sarà importante vedere l'oggettivo ... la fotografia libera la pittura dal bisogno dell'oggettività;attraverso il cinema vediamo il mondo con occhi nuovi.

WALTER BENJAMIN 1936
L'opera d'arte non è più rituale e magica e questo grazie alla riproducibilità dell'opera mediante la fotografia e le copie. Per Benjamin la funzione rivoluzionaria nella coincidenza dell'utilizzazione scientifica dell'utilizzazione del supporto cinematografico.

T.W ADORNO
Il cinema americano nasconde l'estetica, porta all'anonimato l'autore, con parcellizzazione delle figure professionali tutte distinte tra loro Scopo di tutto ciò è non rendere autonoma l'opera, ma renderla senza responsabilità estetica di nessuno, acefalo. Un cinema guidato dall'ideologia.
Le avanguardie vedono nella tecnicità del cinema un modo per mettere in discussione il concetto di autore.

Reverie termine francese introdotto da BION nel saggio “Apprendere dall'esperienza” per indicare lo stato mentale aperto alla ricezione di tutto ciò che proviene dall'oggetto amato e, più specificamente, la recettività della madre alle emozioni ed alle sensazioni che il bambino piccolo le trasmette con modalità di comunicazione molto primitive, tra cui la principale è l'identificazione proiettiva. Nella concettualizzazione di Bion la r. è collegata alla funzione alfa, una funzione mentale che serve a metabolizzare i dati sensoriali grezzi e a renderli utilizzabili come esperienze dotate di significato e in grado di promuovere la capacità di pensare. Per Bion la r. è un fattore della funzione alfa, anche se i due concetti sono quasi sovrapponibili nel senso che il primo traduce in termini di concrete vicende relazionali ciò che il secondo postula in termini di modelli mentali e di astrazioni matematiche.

LOUIS DELLUC la fotogenia è la capacità di cogliere la vita per caso attualità,
Valore del materiale Ejsenstein, Fattografia Vertov, Schlovsky è il semplice punto di intersezione di linee generate fuori di lui

FRANÇOIS TROUFFAUT non posso credere alla coesistenza pacifica della tradizione della qualità e di un cinema d'autore.
Fotografia e cinema mettono in discussione il genio assoluto perché c'è il pro filmico, quello che ci accade davanti. Pratica del viaggio, vagabondaggio e ricerca sperimentazione. Mettere in gioco il soggetto, non lo esalta ma lo relativizza e lo avvicina alla democrazia e la laicità del pensiero scientifico.

Jean Luc Godard
PAROLE CHIAVE: contraddire la narratività, associazioni di idee, film-saggio, straniamento, motivazione, stilistica, forza, del dettaglio connotazione, poesia, mettere in gioco i materiali, spettatore-interprete, tableaux vivants, passioni, cooriginarietà tra amore e lavoro e il nesso tra amore e proprietà, istante, nuovi frammenti dove l’impurità diventa purezza, vedere il passaggio dall’invisibile al visibile, essere davanti alle immagini, contro la spettacolarizzazione delle immagini alla tv, angelo, metafora, inscindibilità tra vita (lavoro = amore, stessi gesti anche se minore intensità) e legge(legge come assoluto, Dio), dimensione cosmologica, montaggio verticale, creatività, fabbrica, matematica, origine spiritualista dell’uomo, cinema di ricerca non è spiegato, non è perfettamente previsto, scintilla dalle associazioni di idee, luce (come senso, significato), stratificazione, uso della parola – indiani d’America: essere stranieri nella propria terra, Non c'è ombra propriamente detta non ci sono che riflessi: ogni cosa è riflesso di qualcos'altro


Il cinema non racconta solo il reale, la vita vera, ma ne fa parte. Ogni inquadratura è un pensiero dell’artista. Godard propone un cinema capace di contraddire la narratività dal suo interno, a favore di un autonomo potere emotivo dell’istante e del dettaglio dove egli frantuma corpi e personaggi. È soprattutto con i sui film dagli anni 80 in poi che Godard contrappone una costruzione alternativa alla narrazione, procedendo per associazioni di idee intaccando la narrazione, provocandola e sostituendo visi per far apparire la verità più profonda colta all’interno dello stesso momento originario della creazione.

In Passion ad esempio egli esibisce l’interrogativo sulla possibilità stessa del narrare in generale e sul senso di ogni possibile narrazione e del fatto di stabilire nessi, rispetto al tema della narratività, tra il cinema e le altre arti, in particolare le arti figurative, il teatro e la televisione. Questo è un film-saggio, anzi una delle forme più spinte di film-saggio, ma anche un film fortemente “poetico” nel senso che si dà alla parola nella tradizione formalista, laddove (Sklovskij) si oppone il linguaggio poetico (la visione) al linguaggio pratico (il riconoscimento)- Il passaggio da riconoscimento a visione, cioè da lnguaggio pratico a poesia è il frutto dell’operazione di straniamento che rende la parola strana e la carica di significati molteplici, nuovi e inusuali, polisemici. Nella sua opera c’è un senso “altro”, ulteriore rispetto al narrativo, una liberazione dalle regole dello spazio/tempo e del plot che producono, come dicono i formalisti russi una motivazione stilistica. La domanda iniziaale “che cos’è questa storia?” all’inizio del film ci introduce dirattamente al cuore del problema. Le risposte sono Non è una menzogna, ma qualcosa di immaginato, non è l’esatta verità, ma neppure il suo contrario. Poi vien detto di fare come Rembrandt, cioè guardare gli esseri umani attentamente sulle labbra e negli occhi. Tutto è correttamente illuminato in ogni direzione, non è una Ronda di giorno, ma all’imbrunire. Quindi la forza del dettaglio. Quindi non il senso dominante del découpage classico, piuttosto collegare la significatività con la connotazione e la poesia, non molto distanti dalle immagini Ejzenstejniane. La storia racconta del tentativo di Jerzy, un regista, di realizzare un film intitolato Passion e basato su tableaux vivants che ripetono quadri celebri (Ronda di notte di Rembrandt, la Fucilazione del 3 maggio 1808 a Madri e la Maya desnuda di Goya, l’Immacolata Concezione del Greco, la Presa di Costantinopoli di Delacrois e altri). È evidente da subito che vengono messi in gioco i materiali. L’operatività artistica diventa motivo che permea il divenire delle cose, la struttura della materia, la legalità universale. C’è un continuo gioco di rinvii al di fuori del testo che avviene a diversi gradi offrendo una selezione sempre più sofisticata allo spettatore-interprete.  In Passion va ricordato il rinvio culturale ai tableaux vivants e allo stesso titolo del film che rimanda alle diverse passioni della storia del cinema a partire da quella prodotta da Zecca tra il 1902 e il 1905 fino a La Ricotta di Pasolini dove Orson Welles ha il problema, come Jersey, di rapportare il vivere una storia con il raccontarla; cioè come raccontare la più grande storia mai scritta. Quindi per comprendere il film è necessario proiettare fuori da esso i materiali che lo lavorano e che esso lavora, ma è pur vero che inevitabilmente tutto va letto alle condizioni poste dal testo stesso e quindi si tratta di una circolarità e di una interconnessione della conoscenza e della cultura umane. Il luogo che rende evidente le funzioni centrifuga e centripeta dei materiali e il modo in cui il testo opera i rinvii è il film televisivo Scénario du film Passion. Nei commenti fuori campo di Godard domina il principio dell’associazione delle parole secondo un’analogia di suoni che invitano a stabilire analogie sul piano dei significati. Sono associazioni mentali che ripropongono i temi essenziali del film, in particolare la cooriginarietà tra amore e lavoro e il nesso tra amore e proprietà. Quindi non solo stabilire nessi, ma esibire la ricerca stessa di nessi possibili. Sembra quasi che l’unica forma di cinema moderno possa essere il film-saggio dove alla tradizionale narrazione vengono sostituiti i materiali in una costruzione critica che cerca sempre nuove connessioni. Spaesamento, seduzione e desiderio nel cinema del surrealista Breton sembrano sollecitare una presa complessiva del Senso, né soltanto concettuale, né soltanto emozionale. Un immagine, dirà Reverdy esponenente della poesia concreta e maestro riconosciuto dei surrealisti, non è forte perché è brutale o fantastica, ma perché la solidarietà delle idee è lontana e giusta. Ancora in Breton c’è una frase “nulla può impedire che la curva di un bel braccio non sveli una spiaggia di luce”; è questo svelamento/legame tra giorno e notte che rende il Cinema un ponte e fa funzionare a perdita d’occhio il meccanismo delle corrispondenze Quindi una presa del senso che mette in gioco l’inconscio (la notte) ma attraverso l’esperienza estetica, quindi la Chiave d’apertura è il gesto dell’arte che spezza le antinomie (le contraddizioni) e fa funzionare le corrispondenze.
Passion indaga sulle radici della creatività, del dare/trovare forma alla/nelle cose e del fare cinema. Lo fa attraverso un’indagine critica dove la luce, cercare/trovare la giusta luce, il compito di Jersy, diventa la metafora fondamentale del film.

La linea perseguita da Godard è quella della modernità, possiamo schematizzarla in:
1-     Punto privilegiato alla relazione “in atto” tra cinepresa e reale fenomenico,
2-     Assunzione, sia a livello di estetica che di poetica autoriale, dell’operazione del filmare
3-     Impurità del linguaggio contro purezza dell’immagine
4-     Depurazione della forma contro effetti-cinema
5-     Cinema della superficie contro cinema simbolico
6-     Emozione e razionalità allo stesso livello contro gioco dell’inconscio
7-     Funzione sociale del cinema
Il suo è quindi un cinema dell’istante in cui c’è spazio per il dettaglio, in cui ci sono istanti di verità, nuovi frammenti dove l’impurità diventa purezza. Attraverso l’associazione inedita dei materiali.
Se il narrare cinematografico è i discorso che utilizza “brani di realtà” il problema sarà stabilire relazioni tra i materiali lavorati che saranno tanto più produttive quanto meno piegheranno ad un discorso univoco, stereotipato; quindi una moltiplicazione creativa del senso di quegli stessi materiali considerati. C’è un’operazione critica svolta sui materiali preesistenti. Jersey dice a Sophie “io non faccio niente, osservo, trasformo, trasferisco, smusso ciò che sporge … nel cinema non ci sono leggi ed è per questo che il cinema ancora lo ama” Sophie risponde: “Non è vero ci sono leggi, c’è una storia, ci sono regole …” Jerzy conclude “Allora si spegne tutto, è finito”. Questa frase è indica bene come i discorsi sulla luce e sulla legge vadano insieme nel film e tendano ad identificarsi. La luce (il senso) dice Jerzy “non va da nessuna parte, non viene da nessuna parte”. La riflessione sul cinema è questa ricerca della luce, per descrivere la realtà bisogna necessariamente descrivere la metafora. Quindi ogni fenomeno rimanda ad un altro, in una catena simbolica dell’interpretazione. E ancora. Bisogna vedere il passaggio dall’invisibile al visibile ed essere davanti alle immagini e non dietro come gli speaker dei telegiornali. La tv propone una storia, una narrazione; lo stesso pubblico televisivo ha bisogno di quelle storie per dare un senso alla propria vita, spettacolarizzandola per poi prenderne le distanze ed esorcizzarla, come il vuoto spettacolarizzato, il niente spettacolarizzato fino alle guerre rappresentate e spettacolarizzate come nuova norma e valore sociale. Godard al contrario riempie, accumula per far esplodere il senso, scava tra le connessioni possibili in ogni direzione, in ogni brandello preziosi di senso.
In Passion Jerzy lotta con l’angelo, in Jevous salue, Marie l’angelo è un vero e proprio co-protagonista, in Soigne ta droite è lo stesso Godard che recita nell’uomo “angelicato” rappresentato dal Principe. Le figure angeliche rappresentano il punto di intersezione, di lavoro di storia e natura, sogno e coscienza, memoria e destino. L’angelo è il simbolo dell’appartenenza dell’uomo a se stesso e simultaneamente a qualcosa d’altro, che lo supera. Il tema della produzione simbolica finisce però necessariamente per interrogarsi sul senso ultimo dell’attività di metaforizzazione. Una riflessione sull’inscindibilità tra vita (lavoro e amore) e legge (legge come assoluto, Dio), in una dimensione cosmologica. Egli indaga sull’origine e il funzionamento dell’universo attraverso suggestioni che mettono in gioco la tradizione religiosa dell’occidente. Lo fa con le associazioni di idee e un montaggio cinematografico contrappuntistico, verticale che rendono il suo cinema ipertestuale con rimandi alla musica e alla luce.

In Save qui peut (la vie) i titoli di testa recitano: “Un film composé par Jean-Luc Godard.” Quindi composto come un brano musicale, ma anche “attraverso” Godard; il regista come passaggio, mediatore, che informa di sé ciò che passa e che esiste prima e fuori di lui. La musica nel movimento n.0 La vita è extradiegetica, ma tuttavia appartiene a Denise, personaggio che vuole vivere e salvarsi. Tuttavia la cameriera non sentirà quella musica che sente Denise e noi spettatori. Nel Movimento 1 L’immaginario, Godard fa una critica feroce al lavoro seriale di fabbrica dove tuttavia la vita delle persone ancora esiste nelle smorfie, nelle pieghe del tempo, in piccoli brandelli di sganciamento in cui l’uomo grida silenziosamente:”Non sono una macchina”. È un’eternità vuota in cui l’uomo è dentro e fuori se stesso, vive e si interroga. Pur se alienato in questa catena, riesce tuttavia ad emergere di tanto in tanto, come la creatività, che è quasi un incidente, una folata di irregolarità, nel fluire standardizzato del tempo. Quindi la catena come metafora della regolarità e ripetitività della vita e origine dal caso, dall’irregolarità della creatività, dove il ruolo secondario è il principale. Quindi caos a livello microscopico, ma anche macroscopico, dove la matematica acquista un ruolo importante. Messa in gioco direttamente da Godard nel movimento 2 La paura  dove durante una lezione di matematica sulla lavagna ci sono equazione e una voce over dice: Guardate la fine del mondo, è in ogni momento, ovunque, si avvicina, si estende. Una connessione tra filosofia dell’esistenza e matematica confermata dalla frase in cui Paul alla moglie chiudi a Cécile, che è brava in matematica, cos’è un mondo finito. Quindi un rapporto con l’universo, ma anche con le leggi che lo regolano, con la musica che è in fondo anche matematica, e poi ancora l’amore e con il sesso. Nel terzo movimento dove è protagonista  una prostituta e infine nel quarto dove Paoul morirà investito da un’auto sotto gli occhi della moglie e della figlia che allontanandosi passeranno accanto ad un orchestra d’archi. La musica rappresenta quasi il movimento stesso della vita di cui si intende restituire la complessità.

In Je vous salue Marie c’è un riferimento esplicito ai fatti del Vangelo, cui Godard propone un’interpretazione metaforica centrata sul tema dell’origine della vita organica e della coscienza umana nel quadro dell’evoluzione del Cosmo. Il riferimento alla fisica contemporanea è dichiarato e tematizzato dal film fin dall’inizio. Sono anni importanti per la fisica gli 80. Godard si interroga sul senso del tutto e sull’origine dell’Universo. Universo, terra e vita che hanno forse origine dalla panspermia, vita giunta dallo spazio, voluta e ordinata. La teoria delle stringhe con i multi versi, universi paralleli, il tentativo di trovare la teoria M, la teoria del tutto. Tentativo di trovare la particella di Dio. Di capire finalmente come Dio opera, come la musica rifletta le leggi matematiche e come la matematica rifletta le leggi universali. Nel film si parla di conoscere e di farlo senza perdersi, senza perdersi nel sesso, dove l’anima si fa corpo senza sesso. In questa analisi profonda Godard ci sta dicendo che l’origine dell’uomo è fuori della materia a noi conosciuta e che quello che i cristianesimo chiama “mistero dell’incarnazione” è la generazione. In questa rilettura del Vangelo alla luce di una concezione contemporanea del cosmo dove mette fuori gioco l’evoluzione darwiniana, Godard sembra adottare una concezione spiritualista dell’origine dell’uomo che dal punto di vista cosmologico non è sperimentata (e forse sperimentabile), ma non è esclusa a livello teorico. Un’ulteriore conferma di questa immersione è il modo in cui Godard firma il film “réalisation” come realizzatore di qualcosa che in prima istanza non gli appartiene. In tutto questo zero e infinito, maschile e femminile si scontrano inevitabilmente con il Big Crunch ovvero la fine che ogni giorno inevitabilmente avanza.

Spiegazione di De Vincenti
Jean-Luc Godard adotta una lettura e un montaggio verticale come Eisenstein. Tantissima semiologia del cinema è basata sulla narratologia. La vera storia è però quella che si forma nella testa di ogni persona, quella che uno percepisce in base alle proprie esperienze. Una storia misteriosa che non sappiamo fino in fondo, tanto che non sappiamo cosa solleciterà del film, della storia. Godard racconta l'amore, racconta la cosa più importante per l'uomo, la riproduzione, l'orgasmo, il big bang universale, l'unica cosa che forse potrebbe dare senso all'assurdo esistere. Il cinema in lui incontra la materia.

PASSION E' il film metalinguistico per eccellenza, un film profondo che parla della creatività, dell'operare artistico, nel costruire manufatti d'arte, nel creare cinema, nel produrre senso, nell'intervento dello spettatore nel dare senso a quello che vede. Tutti i protagonisti hanno i nomi reali.  Jerzy il regista sta facendo un film ad alto badget in Svizzera con i mezzi di un grande produttore svizzero; lo vuole basato su una serie di tableaux vivents che costruiscono "Le Passion" delle origini del cinema, storie della passione di Cristo, la via crucis animate da attori in carne ed ossa. Nel 1903 il cinema diventa narrativo, ma non ha ancora formato la sua semantica completa. L'idea narrativa viene ancora da storie e impianti presi dalla letteratura, dal teatro. Le passioni sono storie cinematografiche che si appoggiano ad una storia che tutti conoscono. Godard dice: adesso parliamo del cinema, attraverso ciò che conta veramente, non la narrazione, ma (come nel formalismo russo) la materia. Nel '52 scrive un saggio sul découpage classico nel cinema che è basato sulla narrazione. Mentre nasce questo cinema della realité in relazione diretta con le cose, scrive un libro in difesa del découpage classico, un libro oscuro difficile da capire, ma facile da capire in relazione ai suoi film. La M.me Bovary di Renoir è un esempio di quello che sostiene: se questo cineasta ha utilizzato (Renoir e Rossellini considerati fratelli maggiori) la regia in profondità (di campo) è stato per imitare in modo sottile il modo con cui la natura nasconde il legame dei suoi effetti. Quindi il cinema imita la natura, la scopre. Se Renoir prepara gli avvenimenti non è per meglio concatenarli e per fare il cinema della narrazione; egli infatti dà più importanza all'essenzialità delle emozioni del momento. Godard usa l'ottica di certe atmosfere nere, un po' melo. Non è come sta usando la cinepresa, ma il discorso che fa, il modo in cui guarda, le forme non sono involucro della sostanza: i colori sono i materiali e la disposizione è la forma, nella poesia ho le parole, la disposizione è la forma. A differenza di Godard, Renoir si preoccupa più dell'essenzialità delle emozioni che del contagio che esse causano. Quello di Godard è anche un cinema di associazione di idee. Il film inizia con l'inquadratura dal basso del cielo contrapposta a immagini di vita quotidiana. La MPD sembra cercare qualcosa, poi si ferma sulla scia di un jet che punta al cielo. Sofie Lucaceschi (segretaria d'edizione), Monsieur Bonnel associato alla produzione, Raoul Putar il direttore di fotografia (lo fa davvero e nel film). Sofie dice che non è una menzogna, mai l'esatta verità, ma non è una bugia, è qualcosa di mai tentato, di separato dal reale esteriore (il materiale di realtà con cui il cinema si confronta) attraverso i pressappoco profondamente calcolati della verosimiglianza. Sofie ha un 'idea del cinema che è il "verosimile". Ci dice qualcosa di "possibile".
Laslo fa la domanda a Bonnel e gli dice di fare come Rembrant, guardare lungamente gli uomini  sulle labbra e sugli occhi. Raoul taglia corto e dice: "Che è questa storia signor Putard? Non c'è storia, non c'è narrazione, tutto è correttamente illuminato, dall'alto verso il basso, non è una ronda di notte, ma di giorno illuminata da un sole già basso sull'orizzonte. (la donna che si vede dietro in secondo piano). Il contrasto della luce eccentrica ha un'attività altissima e la sua forza è tale che senza estreme precauzioni questa esplosione di luce accidentale avrebbe rovinato tutto. E' talmente forte che sarebbe sufficiente a disorganizzare tutto il quadro se non avessimo preso precauzioni. La forza dell'immagine spacca e disorganizza l'ordine narrativo che noi diamo agli avvenimenti, ci obbliga a crearci un'altra narrazione. C'è un'esplosione di creatività.

Questo cinema di ricerca non è spiegato, non è perfettamente previsto, come il suo attore che è rispettato e di cui si attende il miracolo (che non è detto che ci sia). C'è un rifiuto della narrazione, la balbuzie di Isabelle (cominciare da zero, iniziare da capo, il parlare profondo, la difficoltà del linguaggio, essere gli ultimi .... Isabelle dice anche che non si possono trattare male gli operai). I dialoghi iniziali non sono in sincrono. Per principio i poveri hanno ragione! Dopo il passaggio tra la lampada di casa e quella del cinema si passa al set (Opere Signora con ombrello, La Maya desnuda e la fucilazione di Goya, musica Requiem di Mozart) Dice il protagonista "La luce non va e non viene da nessuna parte, non trovo la luce giusta (il senso), basta! Si chiude tutto! nel cinema non ci sono leggi, Ci sono? No non ci sono leggi (la ragazza risponde di si e che innanzitutto c'è bisogno di una storia). Che rapporto c'è tra l'amore e il lavoroC'è un intreccio di frasi una verticalità di costruzione. Durante un atto sessuale in cui un uomo sottometta una donna egli le dice "Dì la tua frase, ..."  .... c'è la frase che sta al vecchio che non va a dormire, la frase chiesta dalla bambina al papà: “perché le cose hanno dei contorni?” “Le hanno? Non sono sicuro!” (libro di Benson) Viene messa in discussione tutta la conoscenza. Molti testi sono citazioni di altri autori.
Nella frase: je vous ai bien eus, quand meme (io vi ho avuto comunque, Io vi ho fregato –c’è l'uomo che con l'automobile riesce a prevaricare le donne) La sceneggiatura (scenario in francese) è verticale, un gioco di parole, un continuo lavorio di associazione di idee, mȇme, m'aime (stessa pronuncia diversa scrittura e significato – avoir, à voir) - Dalla sovrapposizione di idee può nascere la scintilla, un'esplosione della passione rispetto al quotidiano, un linguaggio stratificato che se scavato rivela ... il lavoro è come l'amore, ha gli stessi gesti anche se non necessariamente la stessa intensità. (La bagnante di Valpinçon). Il linguaggio e la difficoltà di comunicazione è rimarcata dalle parole di Isabelle che dice a Jersy che non è in grado di parlare bene in polacco perché non conosce parole, etc... e lui le dice che gli indiani d'America sono stati uccisi perché non erano in grado di costruire bene la frase o meglio erano "stranieri" nella propria terra. Mai un popolo pensa ad un altro popolo. Nella scena del nudo della sordomuta in acqua a mo di stella la parola corretta per identificare la vagina è "ferita universale", dualismo le due parti del cielo, le due donne Isabelle e Sophie una aperta una chiusa, (Giacobbe che litiga con l'angelo che sarà la base del film successivo) Altro quadro della presa di Costantinopoli. Non c'è ombra propriamente detta non ci sono che riflessi, Delacroix ha iniziato dipingendo guerrieri, santi, amanti, tigri.... e ha finito dipingendo fiori. Ogni cosa è riflesso di qualcos'altro.
Godard metalinguistico inizio con tela di Rembrandt "Ronda di Notte" - verosimiglianza e architettrura dell'immagine, tema della luce eccentrica che è contenuta, non viene e non va da nessuna parte. Arte, luce, quadri, testi etc tutti Materiali che Godard come nel montaggio delle attrazioni di Ejsestein fonde insieme. Un movimento centrifugo.
Il cinema di Godard è tutto tra metafora e documento, tra reale e irreale, tra sociale e autoreferenziale.