domenica 19 settembre 2021

L'uomo o il suo pensiero?

Estratti di interviste e articoli di un controverso quanto preparato intellettuale, che ha chiuso la sua carriera nel 1994.

Gli italiani non imparano niente dalla Storia, anche perché non la sanno.

Ogni italiano è insieme furbo e fesso. L’italiano è furbissimo nella gestione dei suoi affari privati, può ricorrere a tutte le astuzie, è attento, è accorto, ed è assolutamente fesso nel non rendersi conto che se i suoi affari privati rimangono immessi in una società che non funziona – cioè dove gli interessi generali vengono trascurati e negletti – i suoi interessi privati finiscono col soffrirne e col condurlo al fallimento. Questo, a noi italiani, non entra in testa.

La corruzione non è soltanto nella politica: è nella società italiana! Noi italiani abbiamo sempre corrotto tutti! Tutti coloro che sono venuti in Italia a fare i padroni li abbiamo corrotti. Noi dobbiamo metterci in testa che la lotta alla corruzione la si fa in un modo solo: cambiando gli italiani, non cambiando le classi politiche. Le classi politiche, anche quelle nuove, si corrompono. È inevitabile.

Siamo un paese cattolico, che nella Provvidenza ci crede o almeno ne è affascinato. Il pericolo è questo: gli italiani sentendo aria di provvidenza sono sempre pronti a mettersi in fila speranzosi.

Tutta l’intellighenzia italiana ha una vecchia tradizione di servilità, com’è logico, perché si è sviluppata in un Paese analfabeta, per secoli e secoli analfabeta. Non avendo il lettore doveva per forza procurarsi il protettore. Scriveva per il protettore.

Quando si farà l’Europa unita; i francesi ci entreranno da francesi, i tedeschi da tedeschi e gli italiani da europei.

In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere, perché è più comodo, un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: «Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?»

Noi italiani non crediamo in nulla e tanto meno nelle virtù che qualcuno ci attribuisce. Ma tra di esse ce n’è una nella quale riponiamo una fede incorruttibile: quella della nostra capacità di corrompere tutto.

Se c’è una caccia alle streghe, vado prima di tutto a sentire le ragioni delle streghe.

Nei grandi giornali di oggi chi comanda non è più nemmeno il direttore: è l’ufficio marketing.

È la solita bruciante delusione, questa nostra borghesia. Non cambia mai, è sempre la stessa: la più vile di tutto l’Occidente. Gente portata a correr dietro a chi alza la voce, a chi minaccia, al primo manganello che passa per la strada. Questo sono i nostri borghesi: tutti fascisti sotto il fascismo, poi tutti antifascisti fin dall’indomani.

Il fascismo privilegiava i somari in divisa. La democrazia privilegia quelli in tuta. In Italia, i regimi politici passano. I somari restano. Trionfanti.

Sono e rimango convinto che fin quando noi italiani ci affideremo soltanto alla Legge – o, come ora usa chiamarla, alle «regole» –, rimarremo quello che siamo, coi vizi che abbiamo, fra cui quello di accatastare regole su regole al solo scopo di metterle in contraddizione l’una con l’altra per poterle meglio evadere.

Che gli italiani siano capaci di emanare leggi di riforma, ci credo senz’altro. L’Italia è la più grande produttrice di regole, ognuna delle quali è una riforma, è la riforma di un’altra regola. Gli stessi esperti pare che abbiano perso il conteggio delle leggi, dei regolamenti che vigono in Italia: c’è qualcuno che parla di 200.000, altri di 250.000. Ora, quando si pensa che la Germania ha in tutto 5.000 leggi, la Francia pare 7.000, l’Inghilterra nessuna, quasi nessuna – ha dei principi, così stabiliti. A cosa ha portato tutta questa proliferazione? A riempire gli scantinati dei nostri pubblici uffici, dove ci sono questi mucchi di legge che nessuno va nemmeno a consultare perché ognuna di queste leggi poi offre il modo di evaderle. Questa è la grande abilità dei legislatori italiani. I legislatori italiani sono quasi tutti degli avvocati. E gli avvocati a che cosa pensano? A ingarbugliare le leggi in modo da restarne loro i supremi e unici depositari.

L’unico consiglio che mi sento di dare – e che regolarmente do – ai giovani è questo: combattete per quello in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne. Quella che s’ingaggia ogni mattina, davanti allo specchio.

Siamo tolleranti e civili, noi italiani, nei confronti di tutti i diversi. Neri, rossi, gialli. Specie quando si trovano lontano, a distanza telescopica da noi.

Io non ho nessuna difficoltà ad ammettere di essermi sbagliato perché sono convinto che l’infallibilità sia un’esclusività di Dio e degli imbecilli.

Il sapere e la ragione parlano, l’ignoranza e il torto urlano.

Un Paese che ignora il proprio Ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di sapere nulla, non può avere un Domani. Io mi ricordo una definizione dell’Italia che mi dette in tempi lontanissimi un mio maestro e anche benefattore, che fu un grande giornalista, Ugo Ojetti, il quale mi disse: «Ma tu non hai ancora capito che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria».

La vocazione a dividerci sempre e su tutto per il nostro «particulare», come lo chiamava Guicciardini, noi italiani ce la portiamo nel sangue, e non c’è legge che possa estirparla.

Nulla finisce mai in tempi certi in Italia, tranne le partite di calcio.

L’Italia ha i politici che si merita. Siamo sicuri che ne troveremmo di migliori? E se ne trovassimo, che cosa, quale “popolo” rappresenterebbero?

Nel vocabolario italiano, «idealista» diventa sinonimo di «fesso» e «intelligenza» di «furberia».

Questo è un Paese senza memoria, dove l’unica cosa da fare è cercare di non morire perché chi muore (fatte salve la solita mezza dozzina di sacre mummie: Dante Petrarca, eccetera, che nessuno legge) è morto per sempre. È un Paese senza passato, il nostro, che non accumula né ricorda nulla. Ogni generazione non solo seppellisce quella precedente, ma la cancella.

Fare gl’Italiani doveva rivelarsi impresa molto più difficile che fare l’Italia. Tant’è vero che vi siamo ancora impegnati.

La cultura si è chiusa nella torre eburnea. Rimane lì, arroccata in sé stessa, perché ha orrore dei contatti col pubblico, si crede diminuita dai contatti col pubblico. Questa è la cultura italiana. È una cultura di cretini.

Al conformismo l’ironia fa più paura d’ogni argomentato ragionamento.

Un giorno dissi al cardinal Martini: ma non si può scomunicare la televisione, non si possono mandare al rogo un po’ di quelli che la fanno?

Una Giustizia che per istruire un processo impiega sei o sette anni e poi non riesce a chiuderlo con una sentenza che non si presti a rimetterlo, con qualche marchingegno, in gioco, è un meccanismo di cui bisogna assolutamente rivedere e rifare gl’ingranaggi: «Giustizia ritardata – dice Montesquieu – è Giustizia negata».

Le confesso che il suo piglio perentorio e inquisitorio mi disturba alquanto, anche perché mi lascia capire che lei parte da convinzioni così granitiche da rendere vano ogni tentativo d’insinuarvi almeno un dubbio.

Io accetto benissimo i comunisti: i comunisti sono gente seria, pericolosissimi, ma seri. I radical chic no.

Una delle eterne regole italiane: nel settore pubblico, tutto è difficile; la buona volontà è sgradita; la correttezza, sospetta. Per questo, le persone capaci continueranno a tenersi a distanza di sicurezza dalla «cosa pubblica», lasciando il posto ai furbastri (magari bravi) e alle mezze cartucce (magari oneste). Così, purtroppo, vanno le cose in questo bizzarro paese.

In questo Paese dai mille controlli non esiste nessun controllo proprio perché ne esistono troppi.

Scusate se non mi emoziono a vedere 22 miliardari in pantaloncini corti che corrono dietro a un pallone.

Io non voglio soffrire, io non ho della sofferenza un’idea cristiana. Ci dicono che la sofferenza eleva lo spirito; no la sofferenza è una cosa che fa male e basta, non eleva niente. E quindi io ho paura della sofferenza. Perché nei confronti della morte, io, che in tutto il resto credo di essere un moderato, sono assolutamente radicale. Se noi abbiamo un diritto alla vita, abbiamo anche un diritto alla morte. Sta a noi, deve essere riconosciuto a noi il diritto di scegliere il quando e il come della nostra morte.

Purtroppo a me la sorte ha riservato di portarmi nella tomba le due cose che ho più amato: il mio mestiere e il mio Paese. Che cosa sia diventato il primo, annientato da computer e televisione, è sotto gli occhi di tutti. Quanto al secondo, la cancrena è ormai inarrestabile e la decomposizione sta avvenendo per dissoluzione di quel poco che resta dello Stato.

La democrazia è sempre, per sua natura e costituzione, il trionfo della mediocrità.

La servitù, in molti casi, non è una violenza dei padroni, ma una tentazione dei servi.

La vita è come il pane: col trascorrere del tempo diventa più dura, ma quanto meno ne resta tanto più la si apprezza.

Indro Montanelli

Nessun commento:

Posta un commento