sabato 21 giugno 2014

Economia della resistenza

Conoscere Zanzotto è affrontare un viaggio nel secolo breve attraverso l’esperienza di un uomo che, contro corrente, ha cercato di raccontare luoghi e tempi, un percorso attraverso la sensibilità di chi, in ogni modo, cerca di proteggere i suoi cari consapevole di essere, oltre che terra-carne, anche il momento più alto della natura stessa, in un paesaggio che svela la morte come compimento della vita, orgasmo supremo che potrebbe auto-liberare l’uomo dall’insensato esistere, ma anche cosciente della propria impossibilità di svincolare chi si ama dal fardello dell’assurdo, perché si passerebbe per omicidi. È in questa cognizione dell’inutilità umana, in cui tentare di giustificare "Tutto e Tutti" per aver creato qualcosa di profondamente assurdo, che prende forma la depressione, che è lucida follia sublimata, in paesaggio che è rifugio per l’anima; una torre/follia immersa nella natura dove chiedere scusa a chiunque per non essere stati  capaci di proteggerlo dalla morte e ripetere, come non dovesse mai finire, il gesto di un inchino  compiuto nel tentativo di “universalizzare la propria autobiografia affettiva”. Zanzotto racconta questo e molto altro accumulando capi d’abbigliamento in un bagaglio sempre più pieno dove raccogliere e salvare qualcosa di ogni uomo come fosse un disco aureo da spedire su un razzo di linea per la Luna e, durante il viaggio trasmesso dalla tivucinema, guardare in movimento dall’oblò tutta la Terra in una vertigine assoluta mitigata solo dal filtro di un vetro, attraverso un linguaggio che è rappresentazione stessa del Mondo. Un linguaggio duale in perenne lotta con se stesso, tra le cime altissime di un Monte Olimpo Marziano da cui osservare, sgomenti, l’abisso del ferino istinto Demonico e forse riscoprirsi guariti o semplicemente percepire la nostra percezione guardandoci da fuori come oggetto/desiderio della natura stessa, in un Pan/Demonio caotico da cui non c’è scampo. Un linguaggio narrato attraverso un violino accordato in modo inusuale e che produce armonie omnitemporali, drappeggiate da una melodia popolare, in una sorta di sublimazione mozartiana tra alto e basso, in una diglossia che è quasi disegno animato nel diventare grande e piccola a piacimento, restando  grande e  piccola allo stesso tempo, vertigine asemantica e decostruzione del processo comunicativo stesso, fatta di balbettii infantili e pindariche immersioni-disgregazioni foniche nell’invenzione della comunicazione stessa. Un linguaggio violento come la gioventù e le istituzioni stesse, un idioma necessariamente spietato, come un vento nucleare che proietta la morte sui muri. Una nuda rivolta dell’uomo contro la barbarie storica, raccontata con un iperlinguaggio che fonde e separa inevitabilmente, la pura astrazione dell’invenzione semantico-matematica di Mallarmè  che si scontra con artaudiane bestemmie di inutili e ridicole trascendenze. Questo equilibrio precario sembra portare alla rappresentazione bidimensionale e iconica di un mondo che l’uomo ha tentato di riprodurre serialmente forse già prima dell’età ellenistica, ma che solo con l’avvento della fotografia perde la sua forma, ma non la sua idea. Una raffigurazione artistica che, nella società a lui contemporanea, è affrontata in modo nuovo, forse proprio perché non ha più senso immortalare iperrealisticamente la natura, visto che tale funzione sarà svolta dal dagherrotipo e dal cinema poi. Celluloide, circo della vita in cui Zanzotto racconterà una parte di sé.      Sé, soggetto, corpo e paesaggio si perdono nel tentativo di trovare l’assoluto che Zanzotto non smetterà mai di cercare consapevole forse che, anche scoprendo la verità suprema, questa non cambierà nulla e certo non ci impedirà di morire. Anche conoscere la verità suprema non ci consentirebbe di comprenderla e forse resteremmo abbagliati in un platonico lampo diretto allo sguardo o semplicemente diventeremmo noi stessi divini. Nella scelta, estremamente modesta e allo stesso tempo ultraelitaria, di essere poeta in una società post concentrazionaria, boom dualistica e tutta presa da dicotomiche lotte tra Occidente ed Oriente, Zanzotto si stacca e trasforma metafore e segnal di lingue-madri-al-quadrato, paradisiache genitrici di vibrazioni sonore che tutto carezzano, fino allo scontro con vetro-filtro che riporta l’origine di canini stridori nella negazione di un bosco che non è più rifugio. E se il nutrimento veleno di una macchina da cucire tutto lega col suo filo cultura-collante e tutto punge col suo ago polizia-escludente, il paesaggio sviluppa e muore mentre il poeta lo intravede e        capisce che la sua terra è avviata al declino. L’esplosione economica di uno stato-nazione non è mai il momento della sua crisi, ma il tempo del suo apice-declino, l’origine della sua parabola discendente. Un tempo che però riesce ad espandersi, un megatempo che dà modo alle ere geologiche di incontrarsi in non luoghi e non tempi dentro la bolla-protezione del proprio paesaggio. Se il mare va via, resta il deserto e l’uomo trova sé stesso e le assurde follie fatte di indicibili violenze che gli ricordano ogni giorno il suo essere fiera dantesca, il suo essere spietato e bestiale e quindi ancora una volta opposto alla bellezza dell’illusione, nel tentativo di scancellare il significato della sua percezione del reale, astraendosi totalmente da ciò che è corpo. Illusione nella ricerca dell’assoluto e della scoperta e nello studio della conoscenza, che rischia di diventare trattieni/tempo in cui scegliere come raccontare, rappresentare il mondo e quindi scrivere poesie diventa gioco, forse l’unico gioco che il poeta può e vuol fare.
Una mente troppo arguta e vivace mette in disparte intangibili banalità della creazione, unendo aristocratiche e snobistiche attività cerebrali e modeste e provincialissime pause sentimentali. Probabilmente perché egli è convinto, forse non a torto, che tutto è  in continuo e perenne equilibrio, tutto è Sole e Luna, tutto è uno stupidissimo derby calcistico e forse proprio non c’è niente di più … ed è così che la poesia diventa campo di battaglia, incarnazione semplice, chiara e pura di un soggetto post umano, spaventato più dal lento agonizzare di 1000 punture di zanzara, che da una pugnalata liberatoria. Un soggetto che fu, fossile, avo, morto, straniato e che ha visto la realtà senza filtri in un’esperienza precaria nell’osservazione dell’opera d’arte che cerca di liberare il paesaggio da se stesso, dal corpo, dai corpi e dal soggetto e forse non ci riuscirà mai mentre continua ad alzarsi cadendo in un titanismo romantico che prometeicamente ruba la fiamma agli Dei e cerca goffamente di osservare l’illimitato, il sublime, tutto in contrasto tra immagina-zione e ragione, cosciente che un soffio di vento potrebbe spazzarlo via. Zanzotto però non demorde, forse ha trovato il senso alla propria esistenza, che nulla può contro Cronos e Thanatos; nello scrittore c’è il tentativo di evidenziare una radice etica, una prospettiva pedagogica nella lotta tra Eros contro Thanatos, che vuole trovare le ragioni profonde della sublimità della poesia, il piacere del linguaggio che si prende cura della civiltà attraverso pulsioni di vita e di morte, di capacità e di handicap che si materializzano in una disperata vitalità che è sperare nella non speranza e, se a tratti potrebbe sembrare anacronistico, eccentrico, attardato, questo prendersi cura dell’anima e del DNA del paesaggio, è in realtà estremamente moderno e necessario. Quello che emerge, in fondo, è il tentativo, tutto umano e sempre contemporaneo, di trovare un senso, un “forse” e il poeta prova a raccontarlo con la forma più alta di amore: il rispetto.  Restituire alla natura il suo essere viva, spontanea e creativa, fatta di fantasticazione antimaterica, ma anche di elementi scaturiti dal Big Bang, anticipando idee ed economie della resistenza. Resistere, “nonostante tutto”, parafrasando, “come ginestre e topinambur”.  

Marco Brama

(dalla brutta conservata di un mio esame)

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