mercoledì 5 marzo 2014

La grande bellezza

Ovviamente non si può ridurre l'analisi di un film a poche righe, specialmente se un film è tanto controverso da creare una divisione netta tra detrattori e sostenitori e questa breve recensione non ha certo la pretesa di sviscerare i segreti di questa pellicola interessante e complessa più delle apparenze. In questi giorni praticamente tutti tra sociologi, letterati, giornalisti di terza pagina e cinefili della domenica hanno scritto ed analizzato, o almeno tentato di analizzare, il film "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino.  Pochi (e giustamente, vista la complessità del film) sono stati invece gli addetti ai lavori che hanno saputo raccontare la loro idea sul film in modo convincente, appassionante magari con un primo breve articolo post-circo mediatico da oscar, lontano cronologicamente dalle prime recensioni e dalla necessità o inclinazione politico-economica. Il lungometraggio di Sorrentino è sicuramente un prodotto cinematografico di genere, nel senso che riproduce uno stereotipo di film italiano, quello "felliniano" se si può definire genere e questo potrebbe renderlo facile preda di pregiudizi, ma allo stesso tempo fa sapientemente leva proprio su questo,  mostrando un'immagine non proprio scontata del cliché Italia nel mondo, o meglio di come sia cambiato, evoluto o invariato nel tempo il modo di percepire il Bel Paese all'estero. Un film girato magistralmente e con spunti originali fatti di inquadrature a volte leziose a volte geniali, ma sempre istituzionalmente cinematografiche, che rendono omaggio, più o meno consapevolmente, a molti registi del passato tra cui vistosamente l'Hitchcock di "Marnie" e il Greenaway di "Il ventre dell'architetto". La pellicola mostra una Roma meravigliosa e iconica che è rappresentazione bidimensionale e trasfigurazione visiva delle frasi finali del film stesso, dipinto del chiacchiericcio della vita e di una superficialità che nascondono i veri significati, le conquiste, le scoperte umane sulla vita ovvero: il prendere coscenza del proprio limite fisico, della vecchiaia, dell'ineluttabilità della morte. In effetti Roma è scelta come simbolo anche per rafforzare questa interconnessione tra l'uomo effimero e una città millenaria che si crede eterna, ma non lo è. La superficialità della Chiesa pervade tutto il racconto filmico e si staglia aguzza nella figura del Cardinale che non riesce più, o non è mai riuscito a capire niente di realmente spirituale o forse sa più di tutti che l'assoluto non ha spiegazione alcuna e cerca conforto nelle sue ricette di cucina, evasione che offusca il caos e il delirio della vita. Emerge d'un tratto il suo orgoglio pastorale che richiama necessariamente l'istituzione tramite una benedizione forte e senza possibilità di replica. La figura di una santa e del suo volto segnato dal tempo, sola immagine libera dai vincoli della chirurgia di superficie e nuovamente istituzionale,  mostra forse l'unico legame con la realtà popolare raccontando che in fondo la bellezza è l'amore in tutte le sue forme e manifestazioni, un amore maturo raccontato con gli occhi di chi ha trovato o sta vivendo l'unica vera bellezza: la vecchiaia. Lo stesso protagonista, pur non riconoscendola, ne sarà travolto tanto da concludere il film con delle frasi che trasudano saggezza popolare e richiamano "la livella", frasi che emergono senza pudore tra le pieghe di un silenzio assordante.

Marco Brama

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