“Cinema, Virtualità e Corpo”
a cura di Marco Maria Gazzano, Christian Uva e Vito Zagarrio
Si apre con le
immagini polimorfe del Video “Warp” di Steina e Woody Vasulka la XIX edizione
del Convegno di Studi Cinematografici di Roma Tre incentrato sul tema del
“Corpo” e delle sue molteplici forme di
rappresentazione. L’apertura è
affidata a Giorgio De Vincenti che, in streaming video, apre con forza sulla
necessità di dare la giusta dignità al cinema, spesso raccontato da quelli che
definisce i “digiuni della domenica”, ovvero studiosi di altre discipline che
si arrogano il diritto di spiegare, codificare ed interpretare superfici
complesse come quelle del cinema, un’arte costruita dal nulla e con fatica
dagli addetti ai lavori. Raimondo Guardino, citando Gadda, anticipa alcune
tematiche del convegno come lo stretto rapporto tra “Immagini, media e dominio”
soffermandosi sull’arduo compito degli
intellettuali di “creare” una produzione sociale. Il Vicedirettore del
Dipartimento, ricordando Elio Matassi, evidenzia come il Convegno sia nato con
l’intento di congiungere la filosofia alla “Comunicazione di uno spettacolo”.
Marco Maria Gazzano ricorda il ruolo fondamentale degli artisti nella
costruzione di un’idea e della realtà sociale, il Professor Uva prosegue sul
rapporto tra “Corpo e Potere”, mentre il Professor Zagarrino chiude
l’introduzione ricordando il grande Carlo Lizzani.
È l’etnometodologa
Annalisa Tota ad aprire le danze con un toccante intervento sulle tematiche del
Corpo nel senso di “Corpo dello Stato”, della sua forma e conseguentemente
forma iconica. Mostrando le immagini del Vietnam Veterans Memorial eretto nel
1982 a Washington D.C., ha ricordato come la commemorazione dei morti impressa
nel granito sia una basaltica e irremovibile montagna che ricorda la follia
della guerra e stende lapidaria un velo sullo sbaglio di quel [e di qualsiasi
ndr] conflitto. Anche un gesto, una fotografia possono diventare monumenti o
meglio “icone” come nel caso del Cancelliere tedesco e premio nobel per la pace
Willy Brandt che si inginocchia per chiedere scusa per “ un peccato” [quello
della Shoa ndr], “che nessuno può cancellare”. In Italia valore simbolico
altrettanto forte assume, per Annalisa Tota, l’incontro di Giorgio Napolitano con Licia Rognini e Gemma Capra a 39 anni
di distanza dalla strage di Piazza Fontana. "E' assurdo che questo
incontro non sia avvenuto prima", fa notare la vedova del commissario
ucciso in un agguato nel '72, dopo che una campagna di stampa lo rappresentò
ingiustamente come responsabile della morte di Pinelli. Considerazione, questa,
pienamente condivisa dalla vedova del ferroviere anarchico, ingiustamente
sospettato della strage di Piazza Fontana e che morì dopo un volo da una
finestra della questura di Milano nel '69. "Questa giornata è stata un dono di Dio, per chi come me è credente […]”
Il presidente Napolitano - conclude Gemma Calabresi - ci ha dato una grande
opportunità, e gliene siamo riconoscenti". Oltre alla televisione, anche
il cinema contribuisce a questa costruzione del “Corpo dello Stato” attraverso
film come “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana o “Diaz” di Daniele
Vicari. È con gli eroi civili, però, che tutto prende forza in modo pressante
come nel caso delle vittime di mafia. La testimonianza intensa e
indimenticabile di Rosaria Costa chiude il cerchio; qui, con i corpi dei
defunti è compiutamente creato il Corpo dello Stato.
L’intervento di
Enrico Menduni mostra come l’agiografia del potere e la sua critica si
intrecciano. Mostrando dei brevi spezzoni dell’arrivo di Hitler a Roma nel 1938
alla stazione Ostiense, dei saluti con Mussolini, la sfilata lungo i fori
imperiali, la satira intelligente e immortale de “Il grande dittatore” di Sir
Charles Spencer Chaplin, Menduni parla di un processo in cui l’intermedialità è
ogni giorno più forte e interconessa.
I grandi eventi del passato, se si fossero “manifestati” nell’epoca del World
Wide Web, avrebbero generato scie di filmati di cronaca, satira e complottismo
mostrando tutto e il contrario di tutto come nell’episodio del 13 dicembre 2009
in cui l’allora premier Silvio Berlusconi venne colpito in volto da un
“attentatore” con una statuetta del Duomo di Milano. Giacomo Manzoli parla del
corpo dell’uomo, in particolare dell’uomo politico. Ne “La voce di Berlinguer”
di Sesti e Teardo, film breve di montaggio dal linguaggio polisemico, Manzoli
fa una breve analisi di questo lavoro carico di emozionalità mettendo in luce
come l’apparente naturalezza di Berlinguer sia il risultato di una particolare
relazione tra voce, immagine, senso del discorso e testo. Abbracciando
dimensioni emotive, utopico-oniriche e artistiche il film, distribuito nei
circuiti tradizionali, raggiunge l’obbiettivo specifico di enunciare un corpo
fisico che assurge a corpo sociale in una rielaborazione storico-sociologica
del lutto di un uomo e della sua idea. Il semiologo Paolo Fabbri fa un
intervento acuto e brillante prendendo a modello della sua metafora sulla
società occidentale, gli “zombies” non solo cinematografici. I non morti, o non
vivi, non sono gli altri, ma noi “o voi”. Rimandando ad un’ipotetica e quasi
necessaria quarta persona plurale Fabbri
racconta il mondo del riflesso, dell’onirico, citando tra i tanti
Kurosawa e le sue armate in “Sogni”; i suoi eserciti che risvegliano antichi e
nuovi timori come quello, tutto contemporaneo, delle pandemie auto inflitte in
cui i virus contagiano tutti. Virus informatici e non solo; soprattutto
“comunicazioni virali” in cui lo spettatore è zombie egli stesso. I morti come
“scoria” e non come storia. Un passato
purtroppo spesso dimenticato insieme alla diametralmente opposta e allo stesso
tempo conseguente visione del futuro. Maurizia Natali in quelle che definisce
tre “iconosfere” affronta il tema del “Corpo delle donne” nella società
contemporanea italiana. Partendo dall’analisi di libro del 2009 scritto da Lorella
Zanardo, appunto intitolato “Il Corpo delle donne”, la Professoressa Maurizia
Natali affronta, senza troppe parafrasi, quella che viene definita l’allegoria
della “pornocrazia” italiana. La figura femminile nella televisione italiana
degli ultimi 25/30 anni è “disegnata” in modo umiliante e disumanizzante come
carne da consumare, tanto da diventare una “donna prosciutto” appesa insieme a
corpi di animali macellati in una trasmissione televisiva e non solo; il mondo delle
bambole di plastica femminili incarnate in veline, meteorine, presentatrici
scollate, ballerine ancheggianti culmina nell’agghiacciante, ma non
sorprendente, caso delle “neo lolitine” romane. Viene affrontato il problema
del genere sessuale nella società italiana, lungi dall’essere risolto con i
suoi ritardi e le sue disuguaglianze; anche il cinema, secondo la Dottoressa,
non è avulso a queste tematiche che già, anche se talvolta con obiettivi radicalmente
opposti, anticipava in stilemi di “femmine oggetto” come le donne ultra formose
di Fellini o certi personaggi spudorati e inquietanti narrati da Pasolini [“Salò o le 120 giornate di Sodoma” ndr].
La Dottoressa Lucilla
Albano “prosegue” (le tematiche dei personaggi inquietanti di Pasolini),
parlando del “perturbante” ovvero, dell’Unheimlich, cioè una particolare
attitudine del sentimento più generico della paura, che si sviluppa quando una
cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene
avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando generica
angoscia unita ad una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità. Lo fa
attraverso una breve, ma attenta analisi
della filmografia, soprattutto recente, di Pedro Almodóvar. I personaggi
almodovariani sono specchio delle inquietudini del tempo presente; un tempo
“egoista” come molti dei rapporti “amorosi” descritti dal regista; in effetti
in queste unioni interpersonali manca la relazione e quasi sempre si comunica
il “godimento dell’uno”. Quelli raccontati dal regista spagnolo sono rapporti non
convenzionali, che mettono in discussione convinzioni e abitudini e lo fanno
attraverso la narrazione del sadismo, del masochismo mediante ambientazioni o
atmosfere gotiche in cui il corpo è solo una “pelle stretta” in cui vivere per
dono o disgrazia divina. Il piacere, l’orgasmo, l’orgasmo supremo, la morte in
un indissolubile intreccio tra “Eros e Thanatos” sembrano permeare tutta la più
recente filmografia di Almodovar in un sinistro spaesamento che mette a nudo
perversioni e debolezze umane senza mai cadere nel trash, in una carezza finale
[che tanto ricorda l’immagine del
ragazzino che carezza l’impalpabile volto della madre nel sublime e inquietante
capolavoro di Bergman “Persona” ndr] che è profondamente dolorosa e sola.
Il professor
Carocci, attraverso la figura del corpo della diva Kerima, affronta il tema
dell’interculturalità del e nel ruolo “istituzionale” e tutto iconico del
cinema americano nel secondo dopoguerra. Un cinema che maschera il suo
controllo sociale mediante le storie, spesso inventate, dei suoi interpreti.
Mutamenti iconografici tra pre e post-colonialismo, tra gusto e timore per
l’esotico, tra accettazione e rifiuto delle “nuove” culture degli immigrati del
‘900. Il cambio di identità, il razzismo, il tema del “perenne straniero” near black che ancora oggi permea il
tessuto narrativo di molto cinema di propaganda “mascherata” statunitense. Vito
Zagarrio illustra il personaggio di Divine
nel cinema di John Waters. Il regista statunitense noto per il suo carattere
dissacratorio e provocatorio, critica da sempre la Way of life americana. L’incontro con un coetaneo del suo
quartiere, il grassoccio Harris Glenn Milstead che ama travestirsi da donna,
sarà il punto di partenza per la nascita di Divine
della Dreamland Production che vedrà il suo esordio cinematografico in “Eat
your makeup”. La pellicola, che narra il sadismo di un uomo che costringe le
modelle a sfilare fino alla morte, è solo il punto di partenza di una
collaborazione sicuramente fuori dagli schemi e dai cliché. “Pink Flamingos” del
1972 crea scandalo e clamore (soprattutto per la scena in cui Divine mangia
veri escrementi di cane) e dà a Waters la spinta per proseguire. I lavori
successivi diventano meno estremi e quindi più “digeribili” dal grande
pubblico, ma conservando sempre elementi originali. Innovativa ad esempio
l’idea dei biglietti “Odorama” che grattati durante la proiezione del film
fanno sentire gli odori di oggetti e secrezioni corporee. Nonostante questo
“ammorbidimento” l’opera di Waters e il suo trash meta filmico, restano
importanti soprattutto a livello concettuale in quanto si scontrano con la
società borghese americana, la sua sessuofobia e il suo finto perbenismo. Prosegue
e chiude la giornata la proiezione di “Sangue” di Pippo del Bono, una preghiera
cinematografica sulla dissoluzione del corpo sia fisico che dello stato, una
dissoluzione fatta di resistenze necessarie e sofferte incarnate dai
protagonisti.
Nella seconda
giornata si finisce nella “Babel” hollywoodiana e i temi si spostano su quella
che viene definita forse un po’ arbitrariamente “nuova narrazione”.Warren
Buckland inizia con l’analisi del film “Source Code” in cui l’intreccio tra
cinema e mondo video ludico si fa stringente. Le nuove tecnologie digitali
influenzano la rappresentazione cinematografica grazie alle peculiarità dei
videogames facendo sì che l’estetica, la serialità e gli avatar dei videogiochi
permeino il tessuto estetico-narrativo filmico. [la stessa tecnica narrativa è però presente in molti film antecedenti;
mi permetto di citare su tutti “Lola Rennt”, film del 1998 di Tom Tykwer. Nel
film, diventato simbolo della nuova Deutsch Kino - almeno in patria – mostra
caratteristiche proprie dei videogames come la serialità temporale, i “livelli
di apprendimento” del protagonista, i “game over” con conseguenti disequilibri
narrativi visibili anche nelle trasposizioni animate. Ricordando come la
protagonista rimandi alle corse interminabili di Lara Croft nel videogioco del
1996 “Tomb Raider”, ritengo che il film sia stato concepito e presentato forse
troppo in anticipo tanto da non essere capito da molti critici come in Italia,
in cui Irene Bignardi su “La Repubblica” lo definì sbrigativamente per lo meno
“bizzarro e furbo” ndr]
Paolo Bertetto
interviene sul concetto di “Fantasmagoria” applicandolo alla merce partendo dai
“Passagen-Werk” di Walter Benjamin. L’immagine fantasmagorica nella società si
svela nell’istanza di autopresentazione, nella capacità di intercettare il
desiderio nella presentazione della merce. Esaltazione e godimento alienato,
artificiale e alterato in un mercato del desiderio. Una società capitalistica
in cui le luci di Las Vegas sono l’estremizzazione del prodotto di consumo. Un
mondo che è “replica” desiderabile esso stesso, seduttore e sedotto nella città
fantasma di “Blade Runner” di Ridley Scott, nei piaceri fittizi di Strange Days
di Kathryn Bigelow, nel gusto dell’autoinganno della storia artefatta di
“Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino o ancora nello spettacolare
affresco visivo di “Avatar” di James Cameron. Paolo Russo riprende le tematiche
della Nuova Narrazione parlando dei
Puzzle Film. Nello studio minuzioso ed estremamente tecnicista di “Inception di
Christopher Nolan, il ricercatore spiega come il modello Vogler Christoper sia troppo stretto per questa plot line e per
quelle dei Puzzle film in generale. Sintetizza 5 livelli narrativi sovrapposti [ma comunque alternati seppur in modo
apparentemente informe ndr] in cui sono presenti nuove macrostrutture e
numerosi frame work cognitivi con incastri temporali diegetici estranianti [ma in tema con quella che potrebbe essere
la nascita di un media franchise con tanti possibili prequel, sequel, spin-off
e storie alternative che chiariscano la trama principale, confezionate con cura
in futuro ndr]
Leonardo Gandini
continua sulle tematiche dei puzzle film paragonandoli ai quadri di Escher. Un
inscatolamento anomalo che mette in difficoltà lo spettatore disorientandolo
nella comprensione deontologica del testo. Si crea un labirinto narrativo da
interpretare con molti “manuali d’uso”. Questo mosaico fa da lancio a Vito
Zagarrio che inserisce nel contesto la serie televisiva “Tounch” e il film
“Ender’s game” mettendo in risalto elementi comuni come: un protagonista
bambino [target “prescelto” a cui
destinare il prodotto ndr] il sogno, il mondo dei videogiochi, il mondo
virtuale [i nemici ndr], in una
narrazione ad incastri [che rimanda agli
spin off web come “Daybreak” – “Touch” – rivolto sempre ai giovani internauti
ndr]. Il dibattito aperto da Veronica Pravatelli mette in luce come sono
numerosi i punti di rimando di questi puzzle film; l’origine va ricercata molto
più indetro, nei lavori di Luis Bunuel, Alain Resnais e in molti lavori del
dopoguerra che utilizzano tecniche narrative non convenzionali con la presenza
di elementi seriali, digressioni temporali, specchi e “breacking elements”. In fondo, mi permetto
di aggiungere, il cinema è arte nuova e “nonostante tutto” un’arte! Per cui
rotture del linguaggio, per altro non nuove o isolate, non devono essere
necessariamente codificate e diventare esse stesse “seriali”, a volte è proprio
il tempo reale, non quello diegetico, a spiegare tutto. Un focus di Giacomo
Marramao sul “doppio corpo del potere” e la proiezione di “L’Africa di
Pasolini” di Gianni Borgna ed Enrico Menduni con i successivi interventi di Mario
Panizza (Rettore dell’Università di Roma Tre), Nicola Borrelli (MiBAC –
Direttore Generale per il Cinema), Roberto Cicutto (Amministratore Delegato
Istituto Luce – Cinecttà) e Andrea Vianello (Direttore Rai Tre) ci ricordano
quanto prestigioso sia diventato questo Convegno giunto alla sua 19ma edizione.
L’omaggio a Carlo Lizzani con ospiti il figlio Francesco, Giuliano Montaldo,
Giuliana De Sio e varie testimonianze inframezzate dalle proiezioni di “Carlo
Lizzani, cineasta multitasking” di Vito Zagarrio, e “La canzone di Carlo” di
Paolo Di Nicola chiudono la giornata del 27 novembre.
La trasformazione
del corpo fisico diventa essenza della percezione. Thomas Elsaessen scompone il
rapporto della percezione “fisica” classica con le trasposizioni
cinematografiche visibili in “Avatar” di James Cameron, “Vita di Pi” di Ang Lee
e “Gravity” di Alfonso Cuarón in cui il disorientamento spaziale creato
mediante l’uso massiccio della grafica creata con l’elaboratore è posizione di
base. L’uomo/natura diventa via via uomo/macchina in un rapporto sublimato da
un’estetica matematico-kantiana dove la supremazia visiva è dinamica e toglie
le “gabbie” riportando la paura per la natura selvaggia [la tigre ndr] in un
mistake irrisolvibile tra ragione e abbandono all’immaginazione, tra vita come
la conosciamo e “nuovo” essere. John Jost,
attraverso una breve, ma significativa digressione nel passato, anatomizza i
mutamenti delle forme corporee nella cultura occidentale. Tra evoluzioni e
involuzioni cicliche il ricercatore sottolinea come la prospettiva nelle
rappresentazioni artistiche sia rimasta invariata dal rinascimento in poi.
Oggi, la disponibilità di recenti strumenti e nuovi punti di osservazione
dovrebbero portare a mutate rappresentazioni del reale, ma non è così.
L’illusione della virtualità non ha cambiato l’atteggiamento umano nei
confronti del mondo, l’uomo è ancora
relegato in una caverna platonica espansa nella quale non è filtrato il
raggio che ha permesso alla Phronesis
di germogliare. Questa artefatta costruzione prettamente estetica del mondo
attraverso l’illusione del virtuale offusca la vista; essere uomo “sapius” e
non solo sapiens sembra prerogativa solo degli artisti che osservano e
raccontano il mondo e il suo, chissà, evitabile declino verso l’autoimplosione.
Giulio Latini affronta il tema delle nuove tecnologie e della risoluzione
temporale nel cinema tridimensionale. Nuove apparecchiature e tecniche per il
videomaking stanno potenziando il
digitale [che ancora subisce la supremazia visuale dell’analogico soprattutto
nella resa cromatica ndr] con un consistente aumento dei dettagli spazio
temporali, mediante l’accresciuta risoluzione e il quasi triplicato frame rate.
Questo è visibile nelle più recenti produzioni cinematografiche come “Gravity”
che si avvalgono di accorgimenti sempre più sofisticati che abbracciano anche
il mondo sonoro attraverso evoluzioni che porteranno in pochi anni all’olografia
totale. [quella sonora è già esistente e
funzionante ndr] Riprende e approfondisce il discorso Enrico Carocci che si
occupa di “Gravity” analizzandone, attraverso 4 schemi, la trama che il
ricercatore reputa sì minimale, ma solida. Prendendo spunto da Jaak Panksepp
sottolinea come il 3D rende vivido l’ambiente e stimola l’attivazione di
sistemi emotivi primitivi in cui il cervello genera mappe corporee anche in
assenza di gravità. La Professoressa Maria Perrota parla del corpo nelle
rappresentazioni televisive di reality show come “Extreme Make Over Edition” e
“Grassi contro magri”. In questi format si manifesta il potere della
metamorfosi, la trasformazione che è rivelazione dello spettacolo. Emerge
forte, in questo mondo “mutante” fatto di medici e coach, l’adeguarsi dei
protagonisti ai canoni del “bello” contemporaneo. Lo specchio, in cui i
protagonisti si guardano al termine della “mutazione”, è il riflesso del
trovare se stessi mediante un’evoluzione faticosa dove le secrezioni corporee
sono fluidi in ampolle di industrial design ottenute in un laboratorio
neoliberista in cui sottomettersi all’idea dell’estetica dominante. Raimondo
Guardino introduce il tema dell’immagine eterea e poi è un susseguirsi di
riflessioni che spostano l’attenzione sul teatro e la deformazione del corpo
come quella in Riccardo III. Il movimento sulle punte di Vaclav Fomič Nižinskij
in una danza angolare e carica di sensualità è argomento di Concetta Lo Iacono;
Samanta Marenzi si sofferma su “Corpo, spirito e immagine” attraverso il
kamaitachi di Eikoh Hosoe e Tastusmi Hijikata; Paolo Ruffini racconta di corpi
in transito nei territori della resistenza e della resilienza; Maia Giacobbe
Borelli “affronta” un corpo a corpo tra Artand e la virtualità nel manifesto
per un teatro abortito mentre una “cinepresa cerebrale” si muove nel “teatro”
di Carlo Quartucci e Carla Tatò. Chiudono il convegno le proiezioni di “Quadri
espansi. La formazione nel cinema italiano” di Francesco Crispino e “La Lunga
Ombra” di John Jost.
Il convegno ha
mostrato quanto il mondo dell’arte, del cinema, della danza e del teatro, la
loro produzione e codifica siano vivi e resistano alle crisi; anzi, sono forse
proprio le “opportunità insite nelle crisi” che rendono più forte l’uomo e la
sua arte. Rimandando alla XX edizione del Convegno, che qualcuno ha
simpaticamente pre-battezzato “XX Congresso”, i protagonisti mettono un altro
piccolo, ma importante tassello nella Fabbrica della Conoscenza in un’Italia
che dopo il 27 novembre può immaginarsi e ritrovarsi speciale nel Multiverso della creatività, ricominciando a
scrivere pagine di cultura per riempire il bagaglio della conoscenza con cui
viaggiare nel mondo.
Marco Brama
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