Conoscere Zanzotto è affrontare un
viaggio nel secolo breve attraverso l’esperienza di un uomo che, contro
corrente, ha cercato di raccontare luoghi e tempi, un percorso attraverso la sensibilità di
chi, in ogni modo, cerca di proteggere i suoi cari consapevole di essere, oltre che terra-carne, anche il momento più alto della natura stessa, in un paesaggio che svela la morte
come compimento della vita, orgasmo supremo che potrebbe auto-liberare l’uomo
dall’insensato esistere, ma anche cosciente della propria impossibilità di
svincolare chi si ama dal fardello dell’assurdo, perché si passerebbe per
omicidi. È in questa cognizione dell’inutilità umana, in cui tentare di
giustificare "Tutto e Tutti" per aver creato qualcosa di profondamente assurdo,
che prende forma la depressione, che è lucida follia sublimata, in paesaggio
che è rifugio per l’anima; una torre/follia immersa nella natura dove chiedere
scusa a chiunque per non essere stati
capaci di proteggerlo dalla morte e ripetere, come non dovesse mai finire,
il gesto di un inchino compiuto nel
tentativo di “universalizzare la propria autobiografia affettiva”. Zanzotto
racconta questo e molto altro accumulando capi d’abbigliamento in un bagaglio
sempre più pieno dove raccogliere e
salvare qualcosa di ogni uomo come fosse un disco aureo da spedire su un razzo
di linea per la Luna e, durante il viaggio trasmesso dalla tivucinema, guardare
in movimento dall’oblò tutta la Terra in una vertigine assoluta mitigata solo
dal filtro di un vetro, attraverso un linguaggio che è rappresentazione stessa
del Mondo. Un linguaggio duale in perenne lotta con se stesso, tra le cime
altissime di un Monte Olimpo Marziano da cui osservare, sgomenti, l’abisso del
ferino istinto Demonico e forse riscoprirsi guariti o semplicemente percepire
la nostra percezione guardandoci da fuori come oggetto/desiderio della natura
stessa, in un Pan/Demonio caotico da cui non c’è scampo. Un linguaggio narrato
attraverso un violino accordato in modo inusuale e che produce armonie
omnitemporali, drappeggiate da una melodia popolare, in una sorta di
sublimazione mozartiana tra alto e basso, in una diglossia che è quasi disegno
animato nel diventare grande e piccola a piacimento, restando grande e
piccola allo stesso tempo, vertigine asemantica e decostruzione del
processo comunicativo stesso, fatta di balbettii infantili e pindariche immersioni-disgregazioni foniche
nell’invenzione della comunicazione stessa. Un linguaggio violento come la
gioventù e le istituzioni stesse, un idioma necessariamente spietato, come un
vento nucleare che proietta la morte sui muri. Una nuda rivolta dell’uomo
contro la barbarie storica, raccontata con un iperlinguaggio che fonde e separa
inevitabilmente, la pura astrazione dell’invenzione semantico-matematica di
Mallarmè che si scontra con artaudiane
bestemmie di inutili e ridicole trascendenze. Questo equilibrio precario sembra
portare alla rappresentazione bidimensionale e iconica di un mondo che l’uomo
ha tentato di riprodurre serialmente forse già prima dell’età ellenistica, ma
che solo con l’avvento della fotografia perde la sua forma, ma non la sua idea.
Una raffigurazione artistica che, nella società a lui contemporanea, è
affrontata in modo nuovo, forse proprio perché non ha più senso immortalare
iperrealisticamente la natura, visto che tale funzione sarà svolta dal
dagherrotipo e dal cinema poi. Celluloide, circo della vita in cui Zanzotto
racconterà una parte di sé. Sé,
soggetto, corpo e paesaggio si perdono nel tentativo di trovare l’assoluto che
Zanzotto non smetterà mai di cercare consapevole forse che, anche scoprendo la
verità suprema, questa non cambierà nulla e certo non ci impedirà di morire.
Anche conoscere la verità suprema non ci consentirebbe di comprenderla e forse
resteremmo abbagliati in un platonico lampo diretto allo sguardo o semplicemente
diventeremmo noi stessi divini. Nella scelta, estremamente modesta e allo
stesso tempo ultraelitaria, di essere poeta in una società post
concentrazionaria, boom dualistica e tutta presa da dicotomiche lotte tra
Occidente ed Oriente, Zanzotto si stacca e trasforma metafore e segnal di
lingue-madri-al-quadrato, paradisiache genitrici di vibrazioni sonore che tutto
carezzano, fino allo scontro con vetro-filtro che riporta l’origine di canini
stridori nella negazione di un bosco che non è più rifugio. E se il nutrimento
veleno di una macchina da cucire tutto lega col suo filo cultura-collante e
tutto punge col suo ago polizia-escludente, il paesaggio sviluppa e muore
mentre il poeta lo intravede e capisce
che la sua terra è avviata al declino. L’esplosione economica di uno
stato-nazione non è mai il momento della sua crisi, ma il tempo del suo
apice-declino, l’origine della sua parabola discendente. Un tempo che però
riesce ad espandersi, un megatempo che dà modo alle ere geologiche di
incontrarsi in non luoghi e non tempi dentro la bolla-protezione del proprio
paesaggio. Se il mare va via, resta il deserto e l’uomo trova sé stesso e le
assurde follie fatte di indicibili violenze che gli ricordano ogni giorno il
suo essere fiera dantesca, il suo essere spietato e bestiale e quindi ancora
una volta opposto alla bellezza dell’illusione, nel tentativo di scancellare il
significato della sua percezione del reale, astraendosi totalmente da ciò che è
corpo. Illusione nella ricerca dell’assoluto e della scoperta e nello studio
della conoscenza, che rischia di diventare trattieni/tempo in cui scegliere
come raccontare, rappresentare il mondo e quindi scrivere poesie diventa gioco,
forse l’unico gioco che il poeta può e vuol fare.
Una mente troppo arguta e vivace
mette in disparte intangibili banalità della creazione, unendo aristocratiche
e snobistiche attività cerebrali e modeste e provincialissime pause
sentimentali. Probabilmente perché egli è convinto, forse non a torto, che tutto
è in continuo e perenne equilibrio,
tutto è Sole e Luna, tutto è uno stupidissimo derby calcistico e forse proprio
non c’è niente di più … ed è così che la poesia diventa campo di battaglia,
incarnazione semplice, chiara e pura di un soggetto post umano, spaventato più
dal lento agonizzare di 1000 punture di zanzara, che da una pugnalata
liberatoria. Un soggetto che fu, fossile, avo, morto, straniato e che ha visto
la realtà senza filtri in un’esperienza precaria nell’osservazione dell’opera
d’arte che cerca di liberare il paesaggio da se stesso, dal corpo, dai corpi e
dal soggetto e forse non ci riuscirà mai mentre continua ad alzarsi cadendo in
un titanismo romantico che prometeicamente ruba la fiamma agli Dei e cerca
goffamente di osservare l’illimitato, il sublime, tutto in contrasto tra
immagina-zione e ragione, cosciente che un soffio di vento potrebbe spazzarlo
via. Zanzotto però non demorde, forse ha
trovato il senso alla propria esistenza, che nulla può contro Cronos e
Thanatos; nello scrittore c’è il tentativo di evidenziare una radice etica, una
prospettiva pedagogica nella lotta tra Eros contro Thanatos, che vuole trovare
le ragioni profonde della sublimità della poesia, il piacere del linguaggio che
si prende cura della civiltà attraverso pulsioni di vita e di morte, di
capacità e di handicap che si materializzano in una disperata vitalità che è
sperare nella non speranza e, se a tratti potrebbe sembrare anacronistico,
eccentrico, attardato, questo prendersi cura dell’anima e del DNA del paesaggio,
è in realtà estremamente moderno e necessario. Quello che emerge, in fondo, è
il tentativo, tutto umano e sempre contemporaneo, di trovare un senso, un
“forse” e il poeta prova a raccontarlo con la forma più alta di amore: il
rispetto. Restituire alla natura il suo
essere viva, spontanea e creativa, fatta di fantasticazione antimaterica, ma
anche di elementi scaturiti dal Big Bang, anticipando idee ed economie della
resistenza. Resistere, “nonostante tutto”, parafrasando, “come ginestre e
topinambur”.
Marco Brama
(dalla brutta conservata di un mio esame)
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